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La tempesta ibrida e la necessaria risposta olistica delle Democrazie

Una tempesta ibrida si sta abbattendo sull'Occidente, caratterizzata da fake news, pirataggio informatico, propaganda travestita da informazione, gaming online finalizzato a preparare attacchi militari e attentati o flussi migratori utilizzati come arma per creare disordine sociale e risentimento. Le nuove minacce alla pace e alla sicurezza sono qualitativamente diverse da quelle del XX secolo. La guerra ibrida non si limita a una serie di attacchi, ma consiste in un approccio integrato che sfrutta una combinazione di strumenti per destabilizzare la società. Le nuove minacce alla sicurezza presentano spesso una struttura olistica, che le rende difficilmente analizzabili con le tradizionali categorie strategica, politiche e giuridiche.

I protagonisti delle “nuove guerre” sono non solo terroristi e bande mercenarie, ma anche gruppi etnici e comunità politico-religiose trasversali che si aggregano e disaggregano a seconda degli eventi e degli obiettivi. Questa fluidità rende difficile distinguere tra guerra e terrorismo e crea sinergie tra obiettivi simbolici e strategici. È sempre più arduo fare chiarezza tra legittimo dissenso politico e propaganda eversiva, tra esercizio della libertà di informazione e intenzionale diffusione di segreti di Stato, così come tra proselitismo ideologico o religioso e reclutamento per scopi militari o terroristici.

Potremmo definire la guerra ibrida come la guerra nella sua espressione massima, perché dotata di forza morfogenetica: essa ci costringe a ripensare le nostre categorie concettuali, ad abbandonare vecchie abitudini tassonomiche e a rinunciare ad antiche certezze. Essa, qui, potremmo dire citando il celebre frammento 53 di Eraclito, nella traduzione di Giorgio Colli, «di tutte le cose è padre, di tutto poi è re; e gli uni rivela come déi, gli altri invece come uomini; gli uni fa esistere come schiavi, gli altri invece come liberi». «Polemos – commenta Colli – spiega non il perché – a questo supremo problema non si applica il perché – ma il come, il contenuto, l’essenza profonda di questa struttura metafisica della realtà» (La natura ama nascondersi, Milano, Adelphi, 1988, p. 202).

Questa tempesta non scuote tutti allo stesso modo.

Le élites economiche e finanziarie e i vertici della classe dirigente difficilmente si lasciano destabilizzare: in qualche modo, hanno interiorizzato la minaccia e dispongono di efficaci strumenti di autotutela, vuoi sotto il profilo economico vuoi sotto il profilo del ruolo sociale. I ceti più disagiati possono essere colpiti, ma spesso hanno ben altro a cui pensare.

Il target privilegiato di questi attacchi è costituito dalla classe media, nella sua accezione più ampia e multiforme.

Rifacendoci alla lezione weberiana, definiamo le classi medie come quelle classi composte di individui che credono nella mobilità sociale, in quanto, pur non possedendo il controllo diretto dei mezzi di produzione, dispongono di qualifiche professionali e tecniche che permettono loro di ottenere un reddito relativamente stabile e di godere di un certo prestigio sociale.

Stiamo parlando, in pratica, del pilastro delle società occidentali e democratiche.

La crescente vulnerabilità della classe media rispetto alle nuove minacce è data dalla combinazione di due circostanze.

In primo luogo, con l’avanzamento della tecnologia, la “superficie di attacco” aumenta, amplificando le vulnerabilità delle società. Ogni dispositivo digitale acquistato rappresenta una potenziale falla nella sicurezza. In questa prospettiva, la cultura e l’opinione pubblica diventano parte della superficie di attacco.

La crescente sofisticatezza tecnologica rende le nostre società più complesse e fragili, dove opinioni, consenso e credenze possono avere un ruolo cruciale nella destabilizzazione.

Quando si parla di opinione pubblica, fiducia nelle istituzioni e andamenti elettorali, si parla, per l’appunto, della classe media.

La seconda circostanza, che interagisce con la prima, è data dalla crisi della classe media. Tale crisi è data essenzialmente dalla compressione, se non proprio dalla scomparsa, della mobilità sociale, e dai conseguenti processi di gentrificazione.

Secondo un recente dossier, i cittadini dei paesi OCSE non credono nella mobilità sociale, neanche negli Stati Uniti, patria del “sogno americano”. Una survey del 2021, “Does Inequality Matter? How People Perceive Economic Disparities and Social Mobility”, mostra che gli intervistati vedono scarse possibilità di migliorare la propria condizione economica rispetto all’infanzia. In particolare, si stima che il 55% dei bambini poverissimi in Italia, il 60% in Spagna e Francia, e il 50% negli Stati Uniti rimarranno poveri da adulti. Vari studi mostrano che il livello di istruzione dei genitori influisce notevolmente sulle opportunità dei figli. Ad esempio, i bambini con genitori laureati hanno il 45% di probabilità in più di laurearsi e il 47% di reddito disponibile in più rispetto a quelli con genitori meno istruiti. Inoltre, solo il 20% di chi ha genitori non laureati consegue una laurea, contro il 70% di chi ha genitori laureati. L’OCSE evidenzia anche come i bambini di famiglie meno istruite arrivino svantaggiati già alle elementari. In Italia, il 35% dei bambini di famiglie a basso reddito riceve stimoli educativi prima della scuola, contro il 60% di quelli di famiglie benestanti.

La situazione era già critica prima della pandemia, con una forte polarizzazione del reddito: il 65% dei poverissimi e il 70% dei ricchi del 2016 rimanevano tali nel 2019. La probabilità di restare nel quintile di reddito più basso era del 55%, mentre per i più ricchi la probabilità di restare nel quintile più alto era del 67%. Negli ultimi decenni, il rischio di mobilità verso il basso è aumentato per una parte sempre più ampia della popolazione.

Le classi medie appaiono, così, sempre più disincantate e impoverite.

La citata difficoltà di accesso all’istruzione superiore e, aggiungiamo, la gentrificazione urbana e alimentare sono esempi tangibili di questa crisi. Le famiglie della classe media non riescono a coprire le elevate rette universitarie e affrontano l’aumento dei costi di vita nei quartieri centrali, costringendole a trasferirsi in periferie meno servite e sicure. Anche la gentrificazione alimentare ha reso i prodotti naturali, biologici e tradizionali accessibili solo a un’élite, mentre già la classe media deve accontentarsi di prodotti più economici e junk food.

La compressione del ceto medio alimenta la rabbia sociale e la polarizzazione politica. La storia fornisce al riguardo esempi significativi. La Germania degli anni ’20 e ’30 vide il ceto medio impoverito sostenere il nazismo, e, negli Stati Uniti, la crisi finanziaria del 2008 ha contribuito all’ascesa di movimenti populisti, sia a destra che a sinistra.

La sfiducia nella mobilità sociale e nella ricchezza meritocratica – ovvero nei valori che Alexis de Tocqueville considerava alla base della democrazia americana – costituisce oggi un problema serio per la sicurezza dell’Occidente. Cercheremo di spiegarci con un esempio preso dalla fisica. Immaginiamo una struttura metallica esposta a un eccessivo riscaldamento. Quando il metallo si surriscalda, le sue molecole si allontanano tra loro, causando l’espansione del materiale. Questa dilatazione aumenta la sua vulnerabilità, rendendo il metallo più fragile e suscettibile a rotture o danni. Analogamente, quando una società attraversa una fase di elevata tensione interna, come quella causata dalla frustrazione e dal malcontento, le sue strutture sociali si “espandono” in modo disomogeneo, creando crepe e fessure. Queste fessure rendono la società più vulnerabile alle infiltrazioni esterne e alle manipolazioni, compromettendo ulteriormente la sua coesione e stabilità. Intendiamoci: la resilienza di una società non ha nulla a che fare con il conformismo ideologico, tutt’altro. Essa, nelle democrazie, risiede per l’appunto nella condivisione di alcuni valori di fondo e nella fiducia in alcune prospettive comuni, al di là della fisiologica dialettica politica e culturale. Sembra che oggi siano proprio quei valori e quelle prospettive ad essere in crisi.

A questo punto, per quanti, come noi, intendono esplorare le interconnessioni dinamiche tra comparazione giuspubblicistica e analisi geopolitica, si pongono due ordini di questioni.

La prima riguarda le politiche costituzionali volte ad aumentare la resilienza sociale delle democrazie. Ora, la consapevolezza dell’interconnessione tra sicurezza e dinamiche sociali, fin dalla storia di Atene e di Roma, non è estranea alla politica occidentale. Ma è con il costituzionalismo moderno che tale consapevolezza acquisisce la forza di principio ordinatore dello spazio pubblico. Un esempio storico illuminante è quello del Regno Unito alla fine del XIX secolo. Durante un periodo di forti conflittualità sociali legate alla rivoluzione industriale, liberali e conservatori si alternavano al potere, con figure come Benjamin Disraeli e William Gladstone. Nonostante le divergenze politiche, entrambi i partiti favorirono la razionalizzazione dei nuovi conflitti sociali attraverso riforme elettorali e sociali. Il Second Reform Act del 1867 e il Third Reform Act del 1884 ampliarono il diritto di voto a una maggiore porzione della popolazione maschile, includendo anche operai e piccoli proprietari terrieri. Inoltre, il Factory Act del 1878 migliorò le condizioni di lavoro nelle fabbriche, e le riforme dell’istruzione, come l’Elementary Education Act del 1870 e del 1880, garantirono l’accesso all’istruzione primaria per tutti i bambini. Queste riforme contribuirono a ridurre le tensioni sociali, incanalandole poi dentro la dialettica sindacale e, infine, parlamentare. La domanda che guidava quelle politiche era “che cosa ha da guadagnare la classe lavoratrice dall’industrializzazione?”. Oggi bisognerebbe chiedersi che cosa ha da guadagnare la classe media dallo sviluppo esponenziale della tecno-scienza e dell’economia in termini di opportunità, benessere e libertà. Non tocca a noi rispondere, ma cercheremo soprattutto di sottolineare qual è la posta in gioco: la destabilizzazione dell’Occidente attraverso la destabilizzazione della classe media.

La seconda questione riguarda la natura stessa dell’analisi geopolitica. Chi svolge tale attività dovrebbe riconoscere la propria influenza sul fenomeno che studia, abbandonando una visione distaccata e oggettiva a favore di una più consapevole e responsabile. In un contesto di crescente complessità e interconnessione, l’analisi non può limitarsi a una mera misurazione e previsione basata su modelli statici, ma deve considerare la propria influenza e il contesto dinamico in cui opera. Ci troviamo, sotto il profilo psicologico, in una situazione analoga a quella nella quale alcuni fisici, ai primi del Novecento, si resero conto che, come poi verrà confermato in via sperimentale in giorni a noi più vicini, l’osservatore influenza la condotta della particella.

Se i nemici della democrazia liberale utilizzano un approccio olistico, allora, forse, anche le democrazie liberali possono rispondere in modo olistico, abbracciando la complessità delle interazioni tra sicurezza e dinamiche sociali e accogliendo, senza eccessivi timori, la natura “quantistica” della relazione tra l’analisi geopolitica e l’evoluzione del quadro politico interno e internazionale. Certo, si tratterebbe di una rivoluzione concettuale, di fronte alla guerra, che, ancora una volta, rivelerebbe la sua potenza morfogenetica.

A cura di Ciro Sbailò – Professore ordinario di Diritto Pubblico Comparato e Direttore GEODI 

Coordinamento a cura di Ciro Sbailò

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