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COP 29: la geopolitica dei numeri e la testa del serpente

51.000 partecipanti accreditati, 1.800 lobbisti del fossile e investimenti richiesti per un miliardo di dollari. Sono queste le cifre della COP 29, che si tiene a Baku, capitale dell’Azerbaijan, dall’11 al 22 novembre. Hanno valso la definizione di “Conferenza dei numeri”, a quello che è ormai considerato il più importante evento mondiale sul clima. La ventinovesima Conferenza annuale delle Parti, è inserita nella Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfcc), di cui fanno parte anche i Paesi dell’Unione Europea. Il meeting annuale si prefigge di individuare obiettivi e responsabilità in materia di clima, nonché l’adozione delle conseguenti misure necessarie. Tra discordie fra Paesi partecipanti e proteste degli attivisti per il clima, i negoziati della COP 29, ormai in dirittura d’arrivo, si stanno tuttavia rivelando particolarmente problematici. A complicare il quadro, si aggiunge la recente rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca.

51.000 partecipanti accreditati, 1.800 lobbisti del fossile e investimenti richiesti per un miliardo di dollari. Sono queste le cifre della COP 29, che si tiene a Baku, capitale dell’Azerbaijan, dall’11 al 22 novembre. Hanno valso la definizione di “Conferenza dei numeri”, a quello che è ormai considerato il più importante evento mondiale sul clima.  
La ventinovesima Conferenza annuale delle Parti, è inserita nella Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfcc), di cui fanno parte anche i Paesi dell’Unione Europea. Il meeting annuale si prefigge di individuare obiettivi e responsabilità in materia di clima, nonché l’adozione delle conseguenti misure necessarie.
Tra discordie fra Paesi partecipanti e proteste degli attivisti per il clima, i negoziati della COP 29, ormai in dirittura d’arrivo, si stanno tuttavia rivelando particolarmente problematici.
A complicare il quadro, si aggiunge la recente rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca.  

Sono due i pilastri su cui è articolata la COP 29: l’ambizione, riguardante i piani nazionali per la mitigazione del cambiamento climatico, e l’azione, possibile grazie ai finanziamenti stanziabili. Il secondo pilastro viene ritenuto realizzabile, solo se il primo si esprime attraverso criteri di trasparenza. 
Nelle due settimane dell’evento i temi affrontati sono molteplici: energia, scienza e tecnologia, sviluppo umano – con particolare riguardo ai giovani -, cibo e acqua, agricoltura, trasporti e urbanizzazione, natura e biodiversità, oceani e zone costiere, parità di genere.

Il principale traguardo di quest’anno è il cosiddetto Nuovo Obiettivo Collettivo Quantificato (NCQG). Lo scopo finale sarà infatti stanziare un adeguato finanziamento per i Paesi poveri, al fine di mitigare gli effetti del cambiamento climatico globale, in primis attraverso la riduzione delle emissioni di gas serra. Al momento tuttavia, le cifre provvisorie emerse ufficiosamente dalla bozza di documento redatta giovedì scorso, sembrano insufficienti. Secondo un rapporto dell’Independent High-Level Expert Group on Climate Finance (IHLEG), presentato alla Conferenza, il contrasto al cambiamento climatico richiederebbe un investimento pari ad almeno 1.000 miliardi di dollari all’anno entro il 2030. Si tratta di un finanziamento esterno, ossia proveniente principalmente da aiuti pubblici dei Paesi ricchi.       

Nei panel tematici della COP 29, l’anello debole della catena decisionale resta il principio di unanimità. Un accordo condiviso sugli stanziamenti per i Paesi poveri sembra in effetti ancora lontano. È vero che nel primo giorno dei negoziati è stato approvato l’articolo 6.4 sugli accordi di Parigi, dopo ben 10 anni. Il considerevole risultato è un sistema globale certificato di regolamentazione per i crediti di carbonio, secondo cui i Paesi possono compensare le proprie emissioni di CO₂ con il finanziamento di progetti come il rimboschimento. Tuttavia, le distanze tra le posizioni dei vari Paesi appaiono profonde. 

Per quanto riguarda gli USA, il presidente eletto Trump, che nel suo precedente mandato ha dettato la fuoriuscita del Paese dagli accordi di Parigi, durante l’ultima campagna elettorale ha promesso di fare altrettanto. L’UE non si presenta compatta, e fra le tante – incluse quelle di Macron e Scholz – pesa l’assenza della presidente Ursula von der Leyen. L’Africa Group dal canto suo chiede 1.300 miliardi di dollari entro il 2030, ma l’Arabic Group vorrebbe ridurre la cifra a 1.100 miliardi di dollari. L’unico punto di incontro dell’Occidente sembra la richiesta di ampliare la lista dei Paesi sviluppati, ossia dei finanziatori, tra i quali la Cina non rientra formalmente. Lo stesso dicasi per gli Stati del Golfo. Per tutta risposta, viene evidenziata la responsabilità dell’Occidente rispetto al cambiamento climatico, sin dalla Rivoluzione industriale. 

La definizione da parte del presidente azero Ilham Aliyev degli idrocarburi – di cui l’Azerbaijan è un forte esportatore – come “dono di Dio”, ha scatenato inoltre forti reazioni. Gli attivisti hanno inscenato una protesta all’urlo di “Estirpiamo i serpenti”, con tanto di rettile artigianale come metafora dei Paesi responsabili dell’inquinamento.
In quello che viene ritenuto l’anno più caldo di sempre, il 2024, preoccupa la possibile fuoriuscita dagli accordi di Parigi da parte degli USA, che andrebbe ad aggiungersi a quella di Iran, Yemen e Libia. Anche se raggiunto, l’accordo frutto della negoziazione finale del 22 novembre solleverà un dubbio: i finanziamenti saranno sufficienti per attuare misure climatiche non più rimandabili?  

Donata Zocche – PhD Candidate e Giornalista iscritta all’Ordine Nazionale dei Giornalisti 
       

Coordinamento a cura di Ciro Sbailò

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