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Sudan, tra crisi umanitaria e impasse geopolitica

Sull’attuale peggiore crisi umanitaria del mondo, quella sudanese, lo scorso 18 novembre è calata la scure del veto russo al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. La risoluzione ai voti, presentata da Regno Unito e Sierra Leone, prevedeva un cessate il fuoco immediato.

Sull’attuale peggiore crisi umanitaria del mondo, quella sudanese, lo scorso 18 novembre è calata la scure del veto russo al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. La risoluzione ai voti, presentata da Regno Unito e Sierra Leone, prevedeva un cessate il fuoco immediato. 

Il Paese è sconvolto ormai da 19 mesi da una guerra civile tra l’esercito regolare e un gruppo paramilitare, che ha causato decine di migliaia di morti e oltre 11 milioni di sfollati.  A contrapporsi sono l’esercito nazionale delle Sudanese Armed Forces (SAF) e le Rapid Support Forces (RSF), una potente milizia paramilitare di origine darfuriana. Le due parti hanno organizzato nel 2019 un colpo di Stato contro il dittatore Bashir, in previsione di una transizione democratica. Le rivalità reciproche, di ordine politico ed economico, sono invece sfociate in un cruento conflitto. 
Sul Sudan, i cui attivisti per i diritti umani denunciano la lentezza di una risposta da parte dell’ONU, dopo l’epidemia di colera  incombe il pericolo di una carestia devastante.
È necessario intervenire subito, pena la catastrofe.

La scacchiera geopolitica regionale risulta tuttavia sempre più complessa per la presenza di diversi attori nazionali e internazionali. Le mosse decisive si giocano infatti sul Mar Rosso, in una partita che coinvolge anche l’Iran. Il nemico più temibile potrebbe però rivelarsi il tempo a disposizione. Il conflitto nei mesi si è esteso a tutta la vasta area geografica del Paese (con una popolazione stimata in 45 milioni, il Sudan è la terza nazione più grande del continente), anche tramite il sostegno a entrambe le parti fornito da gruppi armati locali. L’effetto è un sanguinoso stallo militare destinato a protrarsi ancora a lungo, che preclude ogni spazio di negoziazione. Gli Stati Uniti hanno tentato a più riprese di riaprire il tavolo negoziale di Jeddah, dove nel 2023 si era cercato un accordo per la cessazione delle ostilità e l’intervento umanitario. Se tuttavia le intese raggiunte non sono mai state rispettate, la sola convocazione delle parti è al momento impensabile.  

Gli attori del conflitto credono in una possibile vittoria sulla controparte anche sulla base  dell’aiuto militare che ricevono da altri Paesi. 

Le milizie delle RSF (Rapid Support Forces), guidate dal leader Hemedti, godrebbero infatti dell’appoggio degli Emirati Arabi Uniti, che fornirebbero armi attraverso il territorio ciadiano, lungo il confine col Darfur, ormai sotto controllo delle RSF. Abu Dhabi nega, ma gli esperti ONU per le sanzioni in Sudan ritengono fondate le accuse di collaborazione. 

Le SAF (Sudanese Armed Forces) hanno invece un legame di lunga data con l’Egitto, che fornisce sostegno militare alla loro causa. Nella fase iniziale del conflitto le SAF avevano contatti con il gruppo Wagner, mentre al momento sarebbero in trattativa con il governo russo per l’apertura di una base navale nel Mar Rosso. La Turchia, attraverso finanziamenti al Sudan, sarebbe intenzionata a fare altrettanto.

Il ruolo strategico del Mar Rosso si riconferma così fondamentale anche per il Sudan, non da ultimo per la vicinanza dello Yemen, dove le truppe sudanesi combattono assieme a quelle saudite contro i ribelli Houthi in chiave anti-Iran. Il travagliato quadro geopolitico regionale appare di conseguenza quello di un Sudan sempre più vicino all’Arabia Saudita e ai suoi alleati, che sono però rivali della Turchia. 

Il sottosuolo sudanese è ricco di risorse naturali, come oro, uranio e cobalto. Nel conflitto si inseriscono infatti gli interessi delle SAF e delle RSF, rispettivamente per il controllo dello Stato e dei siti estrattivi (in particolare delle miniere auree).
Dopo la cacciata di Bashir nel 2019, il governo di transizione democratica previsto dalle due parti è fallito anche proprio a causa delle rivalità di tipo economico. La competizione per le risorse ha di conseguenza contribuito a trascinare l’Africa in uno dei più cruenti conflitti che abbia mai vissuto.
Secondo Amnesty International sia SAF che RSF sono colpevoli di crimini di guerra.  

Accese reazioni sono seguite al veto che la Russia ha posto sul cessate il fuoco in Sudan. Unico Paese, ma in quanto membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, in grado di bloccare l’intero processo.
Il Regno Unito ha definito il veto “una disgrazia che rivela il vero volto della Russia”. Gli USA hanno accusato il Paese di strumentalizzare gli attori del conflitto a fini politici. La Russia, dal canto suo, ha definito la risoluzione un tentativo del Regno Unito di immischiarsi negli affari delle ex-colonie. L’ambasciatore sudanese all’ONU ha infine dichiarato che le forze RSF dovrebbero essere inserite tra i gruppi terroristici.
Fra tutte, emerge la voce di Clementine Nkweta-Salami, coordinatrice ONU per gli affari umanitari del Sudan: “Il tempo è scaduto. La popolazione del Sudan si trova in una tempesta perfetta che diventa ogni giorno più letale.”
Secondo dati ISPI, in Sudan, su una popolazione di 45 milioni di persone, la metà necessita di aiuti umanitari e soffre una crisi alimentare acuta. Tra queste 755.000 rischiano la morte per fame.  

Donata Zocche – PhD Candidate e Giornalista iscritta all’Ordine Nazionale dei Giornalisti 

Coordinamento a cura di Ciro Sbailò

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