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Siria: il sisma geopolitico dopo la caduta del regime di Assad

L’uscita di scena del presidente siriano segna una svolta storica per il Paese. Le forze ribelli, guidate principalmente da fazioni islamiste sostenute dalla Turchia, hanno preso il controllo delle principali città del Paese, compresa Damasco. Questo sviluppo, collegato alle tensioni regionali e internazionali, porta con sé una serie di implicazioni che hanno tutto il potenziale per ridefinire l'assetto politico del Medio Oriente.

L’uscita di scena del presidente siriano segna una svolta storica per il Paese. Le forze ribelli, guidate principalmente da fazioni islamiste sostenute dalla Turchia, hanno preso il controllo delle principali città del Paese, compresa Damasco. Questo sviluppo, collegato alle tensioni regionali e internazionali, porta con sé una serie di implicazioni che hanno tutto il potenziale per ridefinire l’assetto politico del Medio Oriente.

La caduta di Hama e il richiamo alla memoria

La conquista di Hama, avvenuta il 5 dicembre 2024, per mano dei ribelli sunniti ha avuto un significato particolarmente simbolico. La città è legata alla sanguinosa repressione dell’inverno 1982, quando Hafez al-Assad, generale nazionalista collaudato dalle guerre arabo-israeliane e padre di Bashar, soffocò una rivolta della Fratellanza musulmana siriana con un bilancio stimato di decine di migliaia di morti. Il massacro diede origine alla famigerata “regola di Hama”, descritta dal columnist del New York Times, Thomas Friedman, come un paradigma di repressione estrema per mantenere il potere degli Assad. Sul cui destino è pesata anche l’appartenenza alla minoranza sciita degli alawiti. Emersa in maniera preponderante nella storia contemporanea della Siria, questa rappresenta solo il 10 per cento  dei 23 milioni di siriani, i quali, appartengono, invece, alla corrente maggioritaria dell’Islam sunnita, che considera gli alawiti come non musulmani. Ma la regola di Hama oggi si è rivelata insufficiente, sgretolandosi sotto il peso di una rivolta alimentata da un contesto geopolitico mutato e complesso. 

L’influenza della Turchia e il rischio islamista

Tutto in dieci giorni. Prima Aleppo, poi Hama, Daraa, Homs e infine Damasco. La regia di Recep Tayyip Erdogan ha giocato un ruolo chiave nel domino che ha portato alla definitiva caduta di Bashar al-Assad. Avvenuta l’8 dicembre con il sostegno decisivo ad Abu Mohammad al-Jolani, il leader del movimento islamico Hayat Tahir al-Sham (HTS), da lui forgiato nella lunga guerra civile siriana. Ankara vede nella cacciata del dittatore che ha guidato la Siria con un pugno di ferro per un quarto di secolo l’opportunità per consolidare la sua influenza nella regione, contrastando sia il potere iraniano che le forze curde. Tuttavia, il sostegno turco ai gruppi jihadisti – HTS nasce da al Qaeda e Isis, ma nell’ultimo decennio al-Jolani ha rotto con entrambe – solleva preoccupazioni per un possibile nuovo corso islamista del governo siriano. Per Israele, un nuovo Califfato ai suoi confini rappresenta un pericolo strategico, aumentando il rischio di nuove tensioni sulle alture del Golan, dove non a caso lo Stato ebraico ha rinforzato da giorni la presenza militare.

La Russia tra Siria e Ucraina

L’impegno russo in Siria si intreccia ora con la guerra in Ucraina, creando nuove complessità per il Cremlino, diviso tra il mantenimento delle ambizioni geopolitiche nel Mediterraneo e in Africa, e la necessità di concentrare risorse sul fronte europeo. L’intervento di Mosca nel 2015, volto a salvare Assad quanto a dimostrare la propria caratura mondiale, aveva proiettato l’immagine di un alleato affidabile nel circondario mediorientale, in contrapposizione all’Occidente. Tuttavia, la caduta della dinastia Assad, seguita dall’offerta di asilo umanitario da parte del Cremlino, costringe Vladimir Putin a ridefinire le priorità strategiche. Questa svolta potrebbe aprire uno spiraglio per negoziati sulla guerra in Ucraina, nel tentativo di alleggerire la pressione militare e preservare risorse cruciali come lo scalo aereo di Khmeimim unitamente al porto di Tartus.

Le implicazioni per gli Stati Uniti e il ritorno di Trump

Il nuovo sisma della geopolitica mediorientale potrebbe offrire un corsia preferenziale  al secondo mandato di Donald Trump per favorire la pace tra Kiev e Mosca. Aprendo la strada per altri obiettivi internazionali della Casa Bianca, in primis, il rinnovato confronto USA con l’Iran, indebolito dagli attacchi israeliani contro Hezbollah e grande sconfitto della partita siriana. In un messaggio pubblicato via social su Truth, il presidente neoeletto ha aperto di fatto a future trattative, lasciando intendere che Putin rischia di fare la stessa fine di Assad, mentre Volodymyr Zelensky vorrebbe “concludere un accordo”. Ma la storica imprevedibilità della politica estera americana sotto Trump solleva molte incertezze.

Un’eredità della Primavera araba

L’insieme dei recenti sviluppi può essere interpretato come una prosecuzione delle istanze democratiche emerse con le rivolte della Primavera Araba. La caduta di Damasco rappresenta, infatti, il punto di svolta per una rivolta iniziata 14 anni fa, innescata da graffiti di giovani e ambiziosi siriani che sfidavano la dinastia, oltre che un monito sulla volatilità delle transizioni di potere. Mentre si celebra la fine di un’epoca segnata dalla repressione, resta alta la preoccupazione per l’ascesa di nuovi attori radicali che potrebbero destabilizzare ulteriormente la regione (e non solo), com’è già avvenuto in Afghanistan e altrove. Per gli analisti e i policy maker, il focus deve ora spostarsi sulla gestione delle conseguenze, bilanciando l’impegno per la sicurezza regionale e internazionale con il sostegno a una governance più inclusiva e stabile del mosaico di alleanze e rivalità mutevoli pronte a contendersi le spoglie del regime siriano. 

Alessio Zattolo – PhD Student

 

Coordinamento a cura di Ciro Sbailò

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