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Il primo Papa americano? Geopolitica di un azzardo

Il parziale ritiro degli Stati Uniti dalla scena mondiale apre alla possibilità dell’elezione di un papa americano. Se Washington esercita un’influenza geopolitica minore, può infatti esprimere il proprio messo di Pietro in Vaticano senza che venga messa in dubbio la sua autonomia decisionale.

Il parziale ritiro degli Stati Uniti dalla scena mondiale apre alla possibilità dell’elezione di un papa americano. Se Washington esercita un’influenza geopolitica minore, può infatti esprimere il proprio messo di Pietro in Vaticano senza che venga messa in dubbio la sua autonomia decisionale.
Le probabilità che ciò avvenga sono tuttavia scarse. Il sostegno dato dal presidente Trump al cardinale connazionale Dolan potrebbe addirittura sfavorirlo, in un conclave dove non conta solo il numero dei cardinali elettori, ma anche le loro aree di provenienza. Un’eredità lasciata da papa Bergoglio, che con tali nomine ha voluto che il mondo venisse equamente rappresentato, ma che non favorisce la salita al soglio pontificio di un americano.    

In un recente articolo, il New York Times analizza i retroscena dell’elezione a pontefice di un cardinale americano. La giornalista Motoko Rich, corrispondente da Roma, si affretta a precisare come la saggezza popolare suggerisca che non convenga scommetterci.
Tuttavia, se si volesse ipotizzare un candidato, il nome sarebbe quello del cardinale Robert Francis Prevost, che al momento in Vaticano occupa una delle posizioni più prestigiose. 

Sessantanovenne, nativo di Chicago, Prevost è noto per essere un poliglotta, anche grazie ai due decenni trascorsi in Perù in qualità di vescovo. Nell’ambito del dibattito in corso, che vede i sostenitori dell’agenda bergogliana di inclusione opporsi a chi invoca il ritorno a una dottrina conservatrice, il cardinale americano si colloca in una posizione intermedia.
Da un lato condivide infatti l’impegno di papa Francesco verso i disagiati e i migranti. Dall’altro, si è dimostrato meno aperto verso la comunità LGBTQ, lamentando che media e cultura occidentali simpatizzano per pratiche che non sono in armonia con il Vangelo.
Il riferimento è allo “stile di vita omosessuale” e alle “famiglie alternative formate da partner dello stesso sesso e dai loro figli adottivi”.   

In Perù – puntualizza il quotidiano newyorkese – Prevost si è distinto per l’appoggio agli immigrati venezuelani, e per le sue visite alle comunità più lontane. Si è sempre invece opposto al piano governativo per l’insegnamento della teoria gender nelle scuole, definendola disorientante. Ciò che però ha attirato critiche al cardinale, sono stati i suoi rapporti con alcuni sacerdoti accusati di abusi sessuali, nonché la presunta cattiva gestione delle relative indagini. I suoi sostenitori lo ritengono tuttavia oggetto di una campagna denigratoria, orchestrata da un movimento cattolico messo al bando da papa Bergoglio. 

Un tempo – precisa il Catholic Herald – l’idea di un papa americano era inimmaginabile.
Il veto era geopolitico: le decisioni papali sarebbero state prese in Vaticano o nei quartieri generali della CIA a Langley?
Oggi però l’America non è più l’unica potenza mondiale, e ciò che conta è il profilo, oltre che politico, personale e spirituale del candidato. Durante il conclave, i cardinali cercano di eleggere un missionario che abbia un atteggiamento positivo verso la fede; uno statista che sappia condividere la scena con i leader mondiali – attualmente Trump e Xi -; e un governatore capace di gestire il Vaticano, comprese le sue crisi finanziarie.
Il profilo di Prevost – conclude il magazine cattolico – data la sua lunga esperienza internazionale, sembrerebbe soddisfare tutti e tre i requisiti. Ciò che invece solleva dubbi è se possieda il carisma necessario per affrontare lo scenario globale e per ispirare i fedeli. Inoltre, le posizioni del cardinale su alcuni temi, dall’ordinazione a diacono delle donne alla Messa in latino, non sono chiare, e questo potrebbe costare il voto dell’ala conservatrice.  

Ma il mondo – si interroga l’Independent – potrebbe davvero vedere il primo papa americano? La risposta è che è improbabile, ma non impossibile. Dei 252 membri del Collegio Cardinalizio, i cardinali elettori sono 138, e tra questi nove sono americani, il che significa che c’è una probabilità matematica del 6.5% che il prossimo papa sia americano. 
E per quanto riguarda Donald Trump? Scherzando con i giornalisti – scrive il Time – il presidente ha dichiarato di avere pronto un nome per il nuovo papa, a parte il suo, s’intende. Si tratta di Timothy Dolan, settantacinquenne arcivescovo di New York, per il quale ha espresso parole di apprezzamento, contrariamente a papa Bergoglio, da cui lo dividevano tematiche come l’immigrazione e il cambiamento climatico.
Secondo il magazine statunitense, le possibilità che Timothy Dolan venga eletto papa sono però scarse. Il sostegno di Trump non avrà molto peso, anzi, dai cardinali elettori potrebbe non venire visto favorevolmente.
Alcuni sostengono – conclude il Time – che il prossimo papa sarà vicino alle posizioni progressiste di papa Francesco, dato il grande numero di cardinali che ha nominato durante il suo papato, equivalente a circa l’80% degli attuali votanti. Ma è semplicistico sostenere che i cardinali votino per linee ideologiche, come se fossero membri di partito. La vera impronta di Bergoglio in questo conclave si evidenzia invece nelle diverse aree di provenienza dei cardinali, fattore tenuto in gran conto dal defunto pontefice per la loro nomina.
E questo sì riduce le possibilità di un papa americano. Sic transit gloria mundi

Donata Zocche – giornalista e PhD candidate in “Global Studies and Innovation”

Coordinamento a cura di Ciro Sbailò

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