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Trump nel Golfo: tra transazionalismo MAGA e multipolarismo mediorientale

Nel suo secondo mandato, Donald Trump ha compiuto un tour di quattro giorni in Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti, accompagnato da imprenditori del calibro di Elon Musk, Sam Altman e Larry Fink. Un viaggio che, come nel 2017, ha unito spettacolarizzazione mediatica e diplomazia del business, ma che ha lasciato intendere anche cambiamenti profondi nella postura americana nella regione. I partner del Golfo, pur divisi su alcuni dossier, hanno accolto Trump con una sontuosa coreografia diplomatica. Il messaggio condiviso: la fine dell’eccezionalismo liberal e l’ingresso in una fase di puro realismo contrattuale.

Nel suo secondo mandato, Donald Trump ha compiuto un tour di quattro giorni in Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti, accompagnato da imprenditori del calibro di Elon Musk, Sam Altman e Larry Fink. Un viaggio che, come nel 2017, ha unito spettacolarizzazione mediatica e diplomazia del business, ma che ha lasciato intendere anche cambiamenti profondi nella postura americana nella regione. I partner del Golfo, pur divisi su alcuni dossier, hanno accolto Trump con una sontuosa coreografia diplomatica. Il messaggio condiviso: la fine dell’eccezionalismo liberal e l’ingresso in una fase di puro realismo contrattuale.

In chiave antropologica, si tratta di un “transazionalismo” inteso come approccio fondato sullo scambio esplicito di favori, benefici e riconoscimenti, dove la relazione politica è valutata secondo criteri di utilità, lealtà e reciprocità immediata.

“Commerce not chaos”: la visione del Golfo secondo Trump

Durante il Saudi-US Investment Forum, Trump ha pronunciato un discorso che sintetizza la sua visione della regione: «Una nuova generazione di leader sta superando i conflitti del passato. Il Medio Oriente sarà definito dal commercio, non dal caos», come riportato da CNN. Un approccio che rispecchia l’agenda MAGA: premiare l’utilità e la lealtà, non i valori condivisi. Come ha sottolineato il ricercatore Andreas Krieg, «il transnazionalismo di Trump trova nel Golfo il suo ambiente naturale».

I risultati sono tangibili. Il fondo sovrano saudita (PIF) ha annunciato l’acquisto di centinaia di migliaia di chip NVIDIA attraverso la sua nuova società HUMAIN, creata per dedicarsi specificamente all’IA. Come rilevato dal Financial Times, l’operazione rappresenterebbe uno dei maggiori investimenti pubblici nel settore dei semiconduttori, a conferma del ruolo strategico assegnato a queste tecnologie nei nuovi equilibri geopolitici e industriali. Nondimeno, Abu Dhabi punta a diventare leader globale nell’IA entro il 2031. In Qatar, invece, l’accordo con Boeing per l’acquisto di aerei – ufficialmente da 96 miliardi di dollari – garantisce 140.000 posti di lavoro negli Stati Uniti, un simbolo perfetto degli obiettivi MAGA. La questione è stata ampiamente trattata da numerosi analisti; tra gli interventi più rilevanti si segnalano quelli di Imad K. Harb per l’Arab Center Washington e di Vivian Nereim sul New York Times.

Siria: il ritorno in scena

Ma la notizia che ha catturato l’attenzione dei media internazionali è stata l’incontro con il leader siriano Ahmad al-Sharaa, il primo tra un presidente americano e uno siriano in 25 anni. Trump ha annunciato la sospensione temporanea delle sanzioni a Damasco, con l’obiettivo dichiarato di dare alla Siria “una possibilità di brillare”, scrive ancora CNN. Una mossa che ha spiazzato molti ma che è stata accolta positivamente anche da esponenti democratici, tra cui Chris Murphy e Leon Panetta, per il suo potenziale economico e stabilizzante.

Israele fuori dal cerchio

Nonostante i tentativi di rilanciare una tregua a Gaza e un accordo sugli ostaggi, Trump ha evitato accuratamente una visita in Israele. Come osserva Rina Bassit su Al-Monitor, ciò segnala una crescente distanza tra Washington e Tel Aviv. Secondo Yousef Munayyer (Arab Center Washington), il vero ostacolo alla visione regionale di Trump è proprio Benjamin Netanyahu: il primo ministro israeliano – che ha a lungo sostenuto l’idea di normalizzare i legami con gli Stati arabi del Golfo – rimane troppo concentrato sulla propria sopravvivenza politica per favorire l’agenda americana.

Anis Raiss su The Cradle evidenzia una dinamica inedita: «la coreografia del potere americano in Asia occidentale si sta svolgendo senza Netanyahu al centro». Kim Ghattas sul Financial Times è netta: «la pazienza di Trump con Netanyahu è finita». Tuttavia, ciò non implica un disconoscimento dell’alleanza con Israele, ma impone un adeguamento: «Il programma non prevede guerre infinite con obiettivi irraggiungibili». Lo ha evidenziato in un editoriale anche al-Jazeera.

Iran: ambiguità strategica

In conferenza stampa a Doha, Trump ha affermato che «siamo vicini a un accordo» sul nucleare con l’Iran. La reazione di Teheran, però, è stata dura: il presidente Masoud Pezeshkian ha definito Trump «naif» per aver pensato di poter imporre condizioni alla Repubblica Islamica, spiega ancora CNN. Le monarchie del Golfo, un tempo favorevoli a una linea dura su Teheran, hanno ora cambiato approccio. Secondo Bernard Haykel, interpellato dal Financial Times, «se l’Iran fosse davvero attaccato, sarebbero proprio sauditi ed emiratini a pagare il prezzo più alto».

La posta in gioco è chiara: da un lato, la volontà americana di evitare un’escalation che danneggerebbe i flussi commerciali del Mar Rosso e del Canale di Suez – ne ha scritto Marc Lynch, su Foreign Affairs; dall’altro, la necessità di preservare lo slancio economico generato dagli accordi con il Golfo.

Diplomazia della fanfara e ritorno personale

Il viaggio di Trump è stato orchestrato con sapiente teatralità: tappeti viola, salve di cannone, cavalli arabi, Cybertrucks rossi e il Burj Khalifa illuminato con i colori americani. Uno spettacolo pensato per l’ego presidenziale ma anche per sottolineare la ritrovata centralità del Golfo negli equilibri globali. Le monarchie hanno imparato a parlare il linguaggio trumpiano: flessibilità, accordi rapidi e riconoscimenti simbolici.

Anche l’assenza di figure istituzionali come Melania o Jared Kushner segnala il cambio di passo. L’influenza familiare si è ridimensionata, ma il business di famiglia – con progetti in corso in tutti e tre i Paesi visitati – resta centrale. Il presidente ha persino annunciato la nascita del nipote, figlio di Tiffany Trump, durante un incontro ufficiale, ribadendo la fusione tra leadership pubblica e rappresentazione privata.

Verso un ordine post-liberale?

Trump torna da Riyadh, Doha e Abu Dhabi con investimenti record, aperture politiche inattese e la consapevolezza che il suo approccio – diretto, transazionale e privo di preamboli ideologici – è oggi più efficace che mai nel contesto mediorientale. Come osserva sul New York Times l’ex diplomatico americano, Dennis Ross, questo non è stato «un viaggio basato su una visione strategica della regione», ma un consolidamento di rapporti bilaterali fondati su interessi concreti.

Un successo, quindi, che potrebbe ridefinire la politica estera americana nella regione per gli anni a venire. A patto che il prezzo della flessibilità non sia la perdita di influenza strutturale nel lungo periodo.

Alessio Zattolo, PhD Student

Coordinamento a cura di Ciro Sbailò

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