La svolta siriana made in USA: un nuovo scenario geopolitico in Medio Oriente?
- 19 Maggio 2025

Il 13 maggio 2025, durante una visita ufficiale in Arabia Saudita, il presidente statunitense Donald Trump ha annunciato la rimozione di tutte le sanzioni contro la Siria. Una mossa sorprendente, che segna una decisa inversione di rotta rispetto alla tradizionale linea dura adottata dagli Stati Uniti negli ultimi due decenni nei confronti di Damasco. La decisione, ufficializzata con enfasi da Trump, è stata giustificata come un “nuovo inizio” per la Siria sotto la guida del suo nuovo leader, Ahmed al-Sharaa, subentrato al potere dopo la deposizione di Bashar al-Assad nel dicembre 2024.
Il contesto in cui si inserisce questa scelta è complesso. La caduta del regime di Assad ha rappresentato una svolta epocale per la Siria, afflitta da oltre dieci anni di guerra civile, interferenze straniere e isolamento internazionale. Al-Sharaa, figura controversa con un passato da comandante jihadista legato ad al-Qaeda, ha promesso di voltare pagina, impegnandosi su una linea di apertura verso l’Occidente, una maggiore trasparenza nella governance e, soprattutto, una drastica riduzione dell’influenza iraniana all’interno del paese. Questo ultimo punto, in particolare, sembra essere stato determinante nella scelta dell’amministrazione Trump, la quale vede nel ridimensionamento del ruolo di Teheran una vittoria strategica.
Durante il suo discorso, Trump ha sottolineato il potenziale di una Siria “nuova”, pronta a stabilire relazioni diplomatiche con Israele nell’ambito del processo degli Accordi di Abramo, e a facilitare investimenti internazionali nella ricostruzione. La risposta di alcune capitali arabe, tra cui Riad e Doha, è stata subito favorevole. L’apertura verso Damasco si inserisce in una logica di stabilizzazione regionale e contenimento dell’Iran, obiettivo condiviso da molte monarchie sunnite.
Molto più fredda, invece, è stata la reazione di Israele. Il governo israeliano, pur favorevole alla normalizzazione con paesi arabi, guarda con preoccupazione al riavvicinamento tra Washington e un regime guidato da un ex jihadista. A Tel Aviv si teme che, dietro le apparenze di rinnovamento, la Siria possa rimanere un terreno fertile per estremismi o pericolose ambiguità ideologiche. Anche nell’amministrazione americana stessa non mancano dubbi e critiche: alcuni esponenti del Congresso, inclusi membri del Partito Repubblicano, hanno espresso riserve sulla legittimità e sostenibilità di un simile “perdono diplomatico”.
L’Unione Europea, pur mantenendo una posizione più prudente, ha avviato nelle ultime settimane un processo graduale di allentamento delle restrizioni economiche contro Damasco, in particolare nei settori energetico, bancario e dei trasporti. La logica europea è quella di accompagnare con incentivi economici un processo di transizione interna siriano che, seppur fragile, sembra orientato verso una maggiore cooperazione internazionale. Ciò sarebbe favorito anche dalla recente comunicazione della Banca Mondiale, la quale ha dichiarato venerdì 16 maggio che i 15,5 milioni di dollari di debito della Siria sono stati saldati dall’Arabia Saudita e dal Qatar, autorizzando Damasco a contrarre nuovi prestiti.
La decisione degli Stati Uniti di revocare le sanzioni contro la Siria, aprendo la porta a una normalizzazione internazionale del governo di Ahmed al-Sharaa, mette Ankara in una posizione delicata, ma al contempo strategicamente vantaggiosa. La Turchia ha avuto un ruolo diretto e profondo nel conflitto siriano fin dai suoi esordi, sostenendo inizialmente i ribelli anti-Assad, gestendo milioni di rifugiati e intervenendo militarmente nel nord della Siria per contrastare le milizie curde legate al PKK. Con la caduta di Assad e l’ascesa di un nuovo governo a Damasco, Ankara si trova ora di fronte a una realtà trasformata, che comporta rischi, ma anche opportunità.
Innanzitutto, la Turchia guarda con sospetto a qualsiasi riassetto che rafforzi i curdi siriani. Se al-Sharaa decidesse di cooptare formazioni curde nel tentativo di costruire una nuova base di consenso interna, ciò potrebbe riaccendere le tensioni tra Damasco e Ankara, che considera le YPG una minaccia esistenziale. D’altro canto, se il nuovo governo siriano si allineasse maggiormente alle posizioni turche sul contenimento del separatismo curdo, si potrebbe assistere a un rapido disgelo tra i due paesi, con un possibile coordinamento sulla sicurezza dei confini.
In secondo luogo, Erdogan potrebbe sfruttare l’apertura americana verso Damasco per rilanciare il proprio ruolo negoziale e accreditarsi come intermediario tra la Siria e il blocco NATO. La Turchia ha storicamente giocato su più tavoli, e potrebbe ora proporsi come ponte tra la nuova Siria e l’Occidente, soprattutto se Washington dovesse cercare partner regionali per monitorare l’attuazione delle promesse di al-Sharaa.
Infine, la Turchia osserverà con attenzione i movimenti di Teheran. Un eventuale allontanamento tra la Siria e l’Iran potrebbe essere visto con favore da Ankara, poiché significherebbe una minore pressione sciita al suo confine meridionale. Tuttavia, se Teheran dovesse reagire con un aumento del proprio coinvolgimento in Libano o in Iraq per bilanciare la perdita d’influenza a Damasco, la regione potrebbe entrare in una nuova fase di instabilità, che coinvolgerebbe anche gli interessi turchi.
Dal punto di vista geopolitico, il ritorno della Siria sulla scena internazionale potrebbe rimescolare gli equilibri del Medio Oriente. Se il governo al-Sharaa riuscisse realmente a contenere l’influenza iraniana, rilanciare l’economia e gestire una transizione politica relativamente inclusiva, si aprirebbero scenari nuovi e potenzialmente più stabili per l’intera regione. Allo stesso tempo, un riavvicinamento a doppio filo con Washington potrebbe spingere Teheran a rafforzare i legami con altri alleati come Hezbollah in Libano, o con Mosca e Pechino, aggravando ulteriormente la polarizzazione tra blocchi geopolitici.
In questo quadro, il futuro della Siria rimane incerto, seppur con diversi spiragli di miglioramento. La leadership di al-Sharaa è sotto osservazione e le promesse di riforma saranno misurate nei fatti. La comunità internazionale, pur accogliendo con cauto ottimismo la distensione americana, resta vigile. Le prossime mosse di Damasco saranno decisive per capire se la Siria stia davvero aprendo una nuova era o se questa apertura non sia che una fragile tregua in una storia ancora tormentata.
In questo senso, la revoca delle sanzioni da parte degli Stati Uniti segna una tappa potenzialmente storica, ma densa di incognite. Potrebbe essere l’inizio di una nuova fase di stabilità, o semplicemente una scommessa geopolitica rischiosa basata su un fragile equilibrio di interessi e promesse ancora tutte da verificare.
Stefano Lovi – PhD Candidate


