Israele–Iran: il silenzio sunnita e le crepe della solidarietà islamica
- 20 Giugno 2025

A differenza di quanto accaduto in altre guerre regionali, il conflitto diretto tra Israele e Iran è vissuto nel mondo arabo con distacco spettatoriale. Per molti Paesi sunniti, in particolare nel Golfo, la guerra appare come un regolamento di conti tra potenze extra-arabe. Le immagini di razzi su Tel Aviv o esplosioni su Teheran suscitano reazioni ambigue: tra chi esulta per la debolezza iraniana e chi prova un senso di rivalsa verso Israele per Gaza. Tuttavia, prevale una logica pragmatica: questa volta non tocca a noi.
Iran, da garante della causa palestinese a potenza ingombrante
La solidarietà pan-islamica, intesa come coesione della Umma di fronte alle minacce esterne, è oggi più che mai in crisi. Se Teheran era riuscita per decenni a presentarsi come difensore dei palestinesi, questo ruolo si è progressivamente svuotato di consenso. L’Iran ha infatti finanziato e militarizzato milizie sciite in Libano, Siria, Iraq e Yemen, che hanno finito per destabilizzare l’intero Levante. La sua influenza, una volta avvertita come baluardo contro Israele, è oggi percepita da molti arabi sunniti come una minaccia sistemica, non solo al potere politico, ma anche all’autonomia sociale e religiosa delle comunità locali.
Come osserva l’Economist, «the Arab world feels little sympathy for Iran», a causa dei costi umani ed economici delle sue ingerenze. L’assassinio di alti funzionari del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie, coinvolti in Siria, ha suscitato addirittura gesti di giubilo a Damasco. In Siria, il cambio di regime ha rafforzato la volontà di emarginare l’influenza iraniana e avvicinarsi a un nuovo ordine arabo, più vicino agli Accordi di Abramo.
Israele: da alleato tattico a nuovo fattore destabilizzante
Nonostante l’ostilità verso l’Iran, Israele non viene più percepito come partner affidabile. Se in passato l’asse Tel Aviv–Golfo sembrava solido, oggi gli Emirati Arabi e l’Arabia Saudita manifestano crescente disagio. Come riporta il New York Times, l’attacco israeliano ha interrotto i canali di dialogo e causato la sospensione di accordi energetici e commerciali, suscitando un senso di rabbia e vulnerabilità nei centri nevralgici del potere economico arabo.
Non solo: analisti del calibro di Mohammed Baharoon mettono in discussione la razionalità strategica dello Stato ebraico. Citato dal quotidiano statunitense, il capo del centro di ricerca sulle politiche pubbliche di Dubai ribadisce: “il ruolo del ‘pazzo con la pistola’, oggi sembra spettare a Israele, non più all’Iran”. Il timore è che, dopo la Repubblica islamica, la destabilizzazione possa contagiare altri attori, compromettendo l’architettura diplomatica del Golfo.
Tra diplomazia e paura: la linea sottile dei regimi sunniti
I regimi sunniti del Golfo si muovono oggi lungo una linea di equilibrio sottile, sempre più complessa da sostenere. Da un lato, le monarchie della Penisola hanno emesso dichiarazioni formali di condanna contro l’attacco israeliano, nel tentativo di contenere le pressioni interne e salvaguardare la propria immagine nel contesto arabo-islamico. Dall’altro, nei colloqui a porte chiuse, emerge un desiderio inconfessato: che Israele continui, in modo chirurgico, a erodere la capacità militare dell’Iran, considerato da anni il principale nemico regionale.
Negli Emirati, ad esempio, questa ambivalenza è emersa chiaramente quando il presidente MBZ ha espresso solidarietà al popolo iraniano, salvo poi ribadire la storica sfiducia verso Teheran nei colloqui con i rappresentanti statunitensi. In Arabia Saudita, la riconciliazione formale con l’Iran avviata nel 2023 è letta oggi come una tregua fragile: Riad cerca di evitare provocazioni dirette, pur senza nascondere il fastidio verso le ambizioni regionali di Teheran. Dietro le quinte, dunque, i governi dell’Islam maggioritario appaiono impegnati a contenere il fuoco, ma anche a indirizzarlo – lontano dai propri interessi e verso la vulnerabilità strategica iraniana.
Le strade divergenti dell’Islam politico
Nel nuovo scenario di guerra asimmetrica tra Israele e Iran, le capitali del mondo arabo-musulmano tracciano traiettorie sempre più divergenti. A Baghdad, l’instabilità politica e la presenza capillare delle milizie filo-iraniane mettono a rischio la sovranità dello Stato. Il governo centrale, pur condannando gli attacchi israeliani, appare incapace di contenere l’autonomia crescente dei gruppi armati, alcuni dei quali hanno già dichiarato di voler entrare in guerra a fianco di Teheran, qualora gli Stati Uniti intervenissero apertamente.
In Giordania, la monarchia hashemita, pur consapevole della minaccia rappresentata dall’Iran, ha assunto una postura di neutralità vigilante. Le autorità hanno intercettato droni e missili iraniani nei cieli giordani, sottolineando la volontà di impedire che il Paese diventi un teatro di guerra per procura. La presenza di una significativa componente palestinese nella popolazione complica ulteriormente il quadro, rendendo ogni scelta potenzialmente esplosiva sul piano interno.
La Siria post-Assad, governata ora da una leadership sunnita, sembra aver scelto un allineamento pragmatico con l’Occidente. Il nuovo presidente Ahmad al Shara considera l’Iran come un ostacolo al ritorno della Siria nella comunità diplomatica internazionale, e guarda con favore a un futuro ingresso negli Accordi di Abramo, anche a costo di una normalizzazione con Israele.
In Libano, Hezbollah appare silenzioso e indebolito. Dopo il logoramento militare subito negli ultimi quattordici mesi, la milizia sciita ha assunto un atteggiamento attendista, respingendo l’idea di un’apertura del fronte nord. Le autorità libanesi, su pressione occidentale, lavorano per evitare che il territorio del Paese diventi una piattaforma logistica per la risposta iraniana, mentre il cielo di Beirut viene quotidianamente solcato dai droni israeliani in segno di deterrenza visiva.
Anche l’Egitto guarda con crescente preoccupazione all’evoluzione del conflitto. Le tensioni nel Golfo e nel Mar Rosso minacciano di compromettere la sicurezza del Canale di Suez, arteria vitale per l’economia egiziana. Il governo ha rafforzato le esercitazioni di difesa aerea e ha messo in stato di massima allerta il Sinai, mentre la sospensione delle forniture di gas israeliane rischia di provocare nuovi blackout in un’estate già tesa sul piano sociale.
Crisi della solidarietà islamica e ritorno alla realpolitik
La guerra tra Israele e Iran non ha risvegliato la solidarietà dell’Umma, ormai frantumata in alleanze contingenti e agende divergenti. Al contrario, ha messo a nudo i limiti strutturali del mondo sunnita nel costruire un fronte coeso, e il fallimento dell’Iran nel proporsi come polo alternativo. In questo vuoto, Israele si afferma militarmente ma perde legittimità, anche tra i suoi ex alleati.
La nuova fase del confronto mediorientale sarà quindi giocata non solo sul terreno delle armi, ma su quello della fiducia strategica. E il mondo sunnita, per ora, sceglie il silenzio.
Alessio Zattolo, PhD Student


