Gaza: Hamas risponde alla proposta USA
- 10 Luglio 2025

Hamas ha annunciato venerdì 4 luglio di aver fornito una risposta positiva alla proposta di cessate il fuoco presentata dagli Stati Uniti, dichiarando la propria disponibilità ad avviare immediatamente un ciclo di negoziati. Tuttavia, non sembra che il gruppo intenda accettare integralmente i termini avanzati.
Secondo fonti palestinesi citate dalla BBC, Hamas ha richiesto diverse modifiche: tra queste, l’interruzione della distribuzione degli aiuti da parte della Gaza Humanitarian Foundation (GHF), sostenuta da Israele e Stati Uniti, e una garanzia formale da parte americana che la guerra non riprenderà in caso di fallimento dei negoziati.
L’ufficio del Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato in una nota che sono stati compiuti progressi durante i negoziati indiretti tra il team israeliano e Hamas a Doha. Il presidente statunitense Donald Trump, da parte sua, ha commentato positivamente l’apertura di Hamas, sottolineando che potrebbe esserci un accordo su Gaza già la prossima settimana, in concomitanza con la visita del premier israeliano Benjamin Netanyahu alla Casa Bianca. L’obiettivo politico di Trump appare evidente: annunciare un successo diplomatico in un momento strategico, anche in chiave elettorale per le prossime elezioni di Midterm.
La proposta statunitense prevederebbe un cessate il fuoco di 60 giorni, durante i quali si lavorerebbe a una soluzione duratura del conflitto, ma anche l’ingresso di aiuti umanitari sotto il coordinamento delle Nazioni Unite e del Comitato Internazionale della Croce Rossa. Hamas insiste affinché gli aiuti siano gestiti esclusivamente da enti internazionali, escludendo la GHF, ritenuta non neutrale.
I media israeliani hanno riferito che l’ultima proposta probabilmente include un rilascio graduale della metà degli ostaggi israeliani viventi (10) e della metà dei resti (18) nell’arco di 60 giorni. In cambio, Israele libererebbe un numero maggiore di detenuti palestinesi ancora trattenuti nelle sue prigioni e inizierebbe il ritiro parziale delle truppe dalle aree concordate in precedenza all’interno di Gaza.
Una matassa che rimane da sciogliere riguarda il ritiro delle truppe israeliane. La proposta americana prevede un ritiro graduale da alcune aree, ma Hamas chiede un ritorno alle posizioni precedenti alla rottura dell’ultimo cessate il fuoco, risalente a marzo. Tuttavia, il premier Netanyahu e l’ala ultranazionalista del governo israeliano si oppongono fermamente alla fine del conflitto senza la completa distruzione delle capacità militari e politiche di Hamas. Venerdì, infatti, l’esercito israeliano ha continuato a colpire obiettivi nella Striscia di Gaza.
Nel frattempo, la situazione umanitaria continua a deteriorarsi. Secondo il Ministero della Salute di Gaza, almeno 138 persone sono morte nelle ultime 24 ore a causa dei bombardamenti israeliani, che si aggiungono agli oltre 57.000 palestinesi uccisi nella campagna militare di Israele contro Hamas. Le Nazioni Unite hanno denunciato la morte di oltre 500 civili nei pressi di centri di distribuzione degli aiuti, sostenendo che l’esercito israeliano avrebbe sparato sui civili. Tel Aviv ha smentito, accusando l’ONU di diffondere informazioni basate su dati forniti da Hamas. Anche organizzazioni internazionali, come Medici Senza Frontiere, hanno confermato la morte di diversi civili in attacchi avvenuti mentre le persone attendevano aiuti.
L’apertura di Hamas potrebbe segnare una svolta, ma molto dipenderà dalla disponibilità di Israele a fare concessioni reali. L’amministrazione Trump sembra determinata a raggiungere un accordo da poter rivendicare come successo diplomatico, soprattutto in vista delle elezioni USA. Tuttavia, l’opposizione interna al governo Netanyahu e la spinta dell’ultradestra per una prosecuzione dell’offensiva rischiano di bloccare qualsiasi progresso.
Le crescenti perdite civili a Gaza e le denunce delle Nazioni Unite aumentano la pressione internazionale su Israele, inclusi i mandati di arresto emessi dalla Corte penale internazionale nei confronti di Netanyahu e del suo ex ministro della Difesa Yoav Gallant per crimini di guerra e crimini contro l’umanità a Gaza. Anche alcuni alleati occidentali stanno iniziando a porre condizioni più esplicite al supporto militare, in particolare sulla gestione degli aiuti umanitari.
Se il cessate il fuoco dovesse fallire, esiste il rischio concreto che il conflitto si estenda ancora una volta oltre i confini di Gaza. Hezbollah al nord, la crisi in Cisgiordania e le tensioni nel Mar Rosso potrebbero alimentare una spirale di instabilità che coinvolgerebbe anche l’Iran e le forze americane nella regione.
A ciò si aggiunge un ulteriore quesito che alimenta l’incertezza: anche se la guerra dovesse terminare, rimane l’interrogativo su chi governerà Gaza. Israele ha dichiarato più volte di non voler tornare a occupare direttamente il territorio. L’ipotesi di un’amministrazione transitoria sotto l’egida ONU o araba (giordano-egiziana) è sul tavolo, ma manca ancora un consenso internazionale strutturato.
L’attuale fase di negoziazione, sebbene fragile, rappresenta un’opportunità concreta per interrompere momentaneamente la spirale di violenza. Tuttavia, senza garanzie reciproche e senza un piano politico chiaro per il “giorno dopo”, qualsiasi cessate il fuoco rischia di essere solo temporaneo. La stabilità duratura nella regione dipenderà dalla capacità delle parti e della comunità internazionale di affrontare le radici politiche del conflitto.
Stefano Lovi – PhD student


