Il PKK consegna le armi. La vittoria politica di Erdogan
- 16 Luglio 2025

La notizia della deposizione delle armi da parte del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) a Sulaymaniyah, annunciata come tappa fondamentale della terza fase di un processo di disarmo, rappresenta un evento di portata storica nel lungo e sanguinoso conflitto che da oltre quarant’anni oppone la Turchia a una delle più longeve organizzazioni armate curde della regione.
Il PKK è stato fondato nel 1978 da Abdullah Öcalan, in un contesto di profonda marginalizzazione dei curdi in Turchia. Nel 1984 il gruppo lanciò ufficialmente la sua campagna armata per l’indipendenza del Kurdistan turco, aprendo un ciclo di violenza che avrebbe causato decine di migliaia di morti e una destabilizzazione cronica del sud-est del Paese. Da allora, il PKK è stato inserito nelle liste delle organizzazioni terroristiche da Ankara, dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti. Nel tempo, tuttavia, le sue rivendicazioni si sono evolute, passando dalla richiesta di uno Stato indipendente a quella di maggiori diritti culturali, linguistici e politici per la popolazione curda all’interno della Turchia.
Il rapporto tra il PKK e lo Stato turco è stato segnato da brevi aperture e lunghi periodi di guerra. A partire dagli anni Duemila, con l’arresto di Öcalan nel 1999 e la sua detenzione sull’isola-prigione di Imrali, sono cominciati dei tentativi, inizialmente clandestini, di apertura al dialogo. Le vere e proprie trattative, condotte tra il 2013 e il 2015, sembrarono inaugurare una nuova stagione di pacificazione, con la dichiarazione di un cessate il fuoco e l’inizio di un confronto tra governo turco e rappresentanti curdi. Ma la spirale di violenza riesplose dopo pochi anni, complice l’intervento turco in Siria e l’ascesa delle milizie curde del Rojava, alleate del PKK e protagoniste della guerra contro lo Stato Islamico.
La cerimonia di disarmo tenutasi a Sulaymaniyah, città del Kurdistan iracheno, è significativa per diversi motivi. Sulaymaniyah è storicamente vicina al PKK, grazie anche ai legami con l’Unione Patriottica del Kurdistan, partito locale meno ostile rispetto al Partito Democratico del Kurdistan, che domina invece a Erbil. È inoltre un luogo simbolico per il nazionalismo curdo e un rifugio sicuro in cui il gruppo può compiere un passo tanto delicato senza la pressione militare diretta della Turchia.
Dal punto di vista geopolitico, la mossa si inserisce in un contesto complesso. La Turchia, reduce da anni di tensioni interne e da un difficile quadro economico, ha bisogno di stabilità, senza dimenticare che Erdoğan potrebbe voler chiudere, almeno simbolicamente, un conflitto che ha avvelenato per decenni la politica interna del paese. Allo stesso tempo, Ankara mira a rinegoziare il proprio ruolo nella regione, a partire dalla Siria, dove le sue operazioni contro le milizie curde sono state ostacolate dall’alleanza tra le YPG e gli Stati Uniti. Un PKK disarmato, insomma, potrebbe rafforzare la posizione turca nei negoziati con Russia e Iran sulla sistemazione post-bellica del Medio Oriente.
La deposizione delle armi ha anche un significato ideologico profondo. Negli ultimi vent’anni, il pensiero di Öcalan si è progressivamente spostato da una prospettiva marxista-leninista e indipendentista a una visione radicalmente diversa, ispirata al confederalismo democratico. Questo nuovo modello, sviluppato a partire dalle teorie dell’anarchico americano Murray Bookchin, propone un’organizzazione della società basata sull’autogoverno locale, l’uguaglianza di genere, la convivenza tra etnie e religioni e la sostenibilità ambientale. È la filosofia che ha ispirato l’esperimento del Rojava, nel nord-est della Siria, e che oggi potrebbe segnare anche la transizione del PKK da movimento armato a forza politica e sociale.
L’ufficializzazione del disarmo è stata accolta dalla presidenza turca come una “svolta irreversibile”, un’opportunità per “proteggere vite innocenti” e costruire un futuro “libero dal terrore”. Ma affinché questa svolta sia davvero irreversibile, dovrà essere accompagnata da un processo politico concreto: riconoscimento dei diritti culturali curdi, inclusione delle forze curde nella vita democratica del Paese, fine delle repressioni indiscriminate. Senza queste condizioni, il rischio è che il disarmo si riveli solo un gesto simbolico, vulnerabile a nuovi scoppi di violenza.
Sostanzialmente, la questione curda non può essere risolta solo con la deposizione delle armi. Ma il passo compiuto a Sulaymaniyah rappresenta una rottura importante con il passato e una rara occasione di discontinuità in una regione spesso prigioniera dei suoi conflitti irrisolti. Se sapranno coglierla sia il PKK sia il governo turco, potrà davvero inaugurarsi una nuova fase della storia curda e dell’intero equilibrio mediorientale.
Stefano Lovi – PhD Student


