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Siria: l’ombra lunga del conflitto druso-beduino e il naufragio del dialogo con Israele

Un’apparente calma ha fatto seguito, nella provincia meridionale di Suwayda, a una delle settimane più sanguinose dall’inizio della transizione post-Assad: oltre mille morti, secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, tra combattimenti, esecuzioni sommarie e raid israeliani. Lo conferma anche l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, che denuncia più di 128.000 sfollati in pochi giorni.

Un’apparente calma ha fatto seguito, nella provincia meridionale di Suwayda, a una delle settimane più sanguinose dall’inizio della transizione post-Assad: oltre mille morti, secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, tra combattimenti, esecuzioni sommarie e raid israeliani. Lo conferma anche l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, che denuncia più di 128.000 sfollati in pochi giorni.

Le forze tribali beduine si sono ritirate dalla città a seguito di un accordo con il governo di transizione guidato da Ahmed al-Sharaa. La Croce Rossa siriana e il ministero della Sanità hanno potuto inviare convogli umanitari, mentre il portavoce del Consiglio tribale siriano ha parlato di un “ritiro volontario”, in risposta all’appello presidenziale e alle condizioni dell’accordo. Tuttavia, la situazione sul campo resta tesa, con blackout energetici, ospedali fuori uso e continue segnalazioni di abusi compiuti da miliziani e forze regolari. In uno dei casi documentati da The Guardian, un soldato ha pubblicato un video mentre calpestava la foto di una guida spirituale drusa e brandiva un machete, ironizzando sulla “distribuzione di aiuti”.

Gli scontri erano esplosi a partire dal 13 luglio 2025, in seguito a un episodio apparentemente marginale: il presunto rapimento di un venditore druso da parte di un beduino. Ma a far precipitare la situazione è stato l’intervento dell’esercito siriano, formalmente incaricato di ristabilire l’ordine, ma di fatto schieratosi con i beduini contro la comunità drusa. Da lì, una spirale di vendette tribali e rappresaglie interreligiose, culminata con l’ingresso di Israele nel conflitto.

L’intervento israeliano e il fallimento del dialogo

Già nei primi giorni di violenze, Tel Aviv aveva intimato alle forze siriane di ritirarsi dalla regione e aveva condotto raid contro il ministero della Difesa a Damasco e sulla interstatale Palmira-Homs, nel tentativo di fermare i convogli di miliziani beduini diretti a sud. Il primo ministro Benyamin Netanyahu ha giustificato l’azione come parte dell’impegno di Israele a difendere le sue “due linee rosse”: la smilitarizzazione della zona a sud di Damasco e la protezione della minoranza drusa in Siria.

Secondo Kan News, Israele avrebbe inoltre acconsentito temporaneamente all’ingresso limitato delle forze di sicurezza interna nel distretto di Suwayda, mentre fonti siriane confermavano un nuovo dispiegamento dell’esercito nel tentativo – controverso – di riportare l’ordine. Ma la tempistica degli attacchi israeliani ha fatto fallire un negoziato delicato, in corso da settimane.

Come riporta Syria in Transition, il 20 luglio si era tenuto a Baku un incontro riservato tra funzionari siriani e israeliani, durante il quale Damasco aveva proposto un piano quinquennale per la pace, fondato sul ritorno ai confini del 1974 e su garanzie di non-aggressione. Israele avrebbe respinto la proposta, definendo l’accordo del ’74 “privo di valore” e chiedendo in cambio condizioni simili agli Accordi di Abramo, compresa l’apertura di ambasciate e relazioni commerciali. Le autorità di transizione siriane hanno rifiutato categoricamente.

Fonti del New York Times parlano di “ottimismo prematuro” riguardo a un’intesa israelo-siriana, mentre un funzionario americano anonimo ha espresso frustrazione per l’intervento militare israeliano proprio mentre il dialogo sembrava prendere piede. Un colpo al cuore delle speranze internazionali di stabilizzazione.

Washington, tra illusioni e responsabilità

Secondo Foreign Policy, gli Stati Uniti considerano Ahmed al-Sharaa “l’unica speranza di stabilità in Siria”, ma la mancanza di parametri chiari per giudicarne l’operato sta limitando drasticamente la capacità di influenza di Washington. Lo denuncia anche Randa Slim, della Johns Hopkins University, sottolineando come l’eliminazione delle sanzioni a HTS – il gruppo jihadista da cui proviene Sharaa – non sia stata accompagnata da alcuna contropartita. Lo stesso segretario di Stato Marco Rubio ha ammonito Damasco: “Chi ha commesso atrocità deve essere assicurato alla giustizia, anche tra le fila del governo”, ha scritto su X.

Anche l’Unione Europea ha condannato con fermezza le violenze, invitando tutte le parti a proteggere i civili “senza distinzione” e chiedendo espressamente a Israele e agli attori stranieri di rispettare “la sovranità e l’integrità territoriale della Siria”.

Una guerra tra comunità, e dentro le comunità

Secondo L’Orient-Le Jour, il conflitto tra drusi e beduini non ha radici religiose, ma si fonda su tensioni storiche legate alla distribuzione della terra e delle risorse. Ne è convinto Haian Dukhan, docente di relazioni internazionali alla Teesside University, che ha definito l’ascesa di un ministro dell’Agricoltura druso, Amjad Bahr, come “una miccia in un contesto già infiammabile”.

Le dinamiche settarie si sono tuttavia sovrapposte al conflitto sociale. Lo scorso marzo, 1.500 alawiti erano stati massacrati sulla costa siriana in un’ondata di violenze simili. Oggi, sono le famiglie druse a contare i morti.. Alcune di esse – documenta il Washington Post – hanno attraversato il confine da Israele per offrire sostegno e solidarietà ai parenti della stessa comunità mai incontrati prima.

Dietro la narrazione ufficiale della sicurezza e del tribalismo, si profila l’incapacità del nuovo governo siriano di reggere alla prova più difficile: quella di una Siria plurale, riconciliata, sovrana.

di Alessio Zattolo, PhD Student

Coordinamento a cura di Ciro Sbailò

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