Doha, l’attacco israeliano e il futuro della mediazione in Medio Oriente
- 17 Settembre 2025

L’attacco aereo israeliano su Doha ha segnato un punto di non ritorno nel conflitto tra Israele e Hamas. Il raid, diretto contro la leadership politica di Hamas presente nella capitale qatarina, ha colpito non solo l’infrastruttura negoziale che per oltre un decennio ha garantito un canale di comunicazione tra le parti, ma anche l’architettura di sicurezza regionale, con implicazioni che travalicano la crisi immediata.
Dall’avvelenamento al bombardamento: escalation senza precedenti
Non è la prima volta che Israele tenta di eliminare i vertici di Hamas. Già nel 1997 Khalid Meshaal, allora leader politico del movimento, sopravvisse a un tentativo di avvelenamento ad Amman, grazie all’intervento diretto di Re Hussein e degli Stati Uniti. Il 9 settembre 2025, invece, l’operazione ha assunto una portata radicalmente diversa: Israele ha colpito con un bombardamento un Paese terzo, non parte del conflitto, e alleato di Washington, rompendo quello che Yousef Munayyer ha definito «un tabù dopo l’altro» e alimentando la percezione di uno Stato ebraico sempre più vicino a una postura da rogue state. Secondo il politologo Mark Lynch, questa evoluzione rappresenta il culmine di una strategia di “escalation incrementale” che ha portato Israele a spingersi sempre più oltre nel ricorso ad assassinii mirati e operazioni extraterritoriali.
Il ruolo ambiguo di Doha
Il Qatar ha ospitato l’ufficio politico di Hamas dal 2012, su richiesta esplicita degli Stati Uniti, con l’obiettivo di fornire un canale di comunicazione indiretto con il movimento islamista. Fino al 2023, Doha ha inoltre fornito assistenza umanitaria e finanziaria alla Striscia di Gaza, anch’essa su richiesta israeliana. L’attacco, dunque, ha colpito non solo un attore regionale, ma anche l’architettura diplomatica che ha permesso di mantenere aperto un dialogo minimo, oggi ridotto ai minimi termini. La leadership qatarina ha sottolineato come questa azione renda ancora più remota la possibilità di liberare gli ostaggi detenuti da Hamas e di avviare un processo negoziale credibile.
La frattura nel sistema di sicurezza del Golfo
L’attacco ha scosso profondamente le dottrine di sicurezza dei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC). Come osserva Andreas Krieg, per oltre cinquant’anni questi Stati hanno fondato le proprie strategie su due presupposti:
- Gli Stati Uniti come garanti ultimi della loro sicurezza, soprattutto contro l’Iran.
- Israele come minaccia gestibile, da contenere attraverso un dialogo riservato e pragmatismo, come dimostrano gli Accordi di Abramo.
Oggi entrambi i presupposti vacillano. Mentre l’Iran, sebbene percepito come minaccia, è contenuto dall’Occidente, Israele appare invece libero di agire senza vincoli. Ciò alimenta la paura che neppure la normalizzazione diplomatica – come quella avviata cinque anni fa da Emirati Arabi Uniti e Bahrein – possa garantire protezione da operazioni israeliane. Riyad, dal canto suo, sospenderà verosimilmente ogni discorso sulla normalizzazione, almeno nel medio termine.
Il risultato immediato è un inatteso rafforzamento dell’unità tra gli Stati del GCC. Come ha evidenziato Kristin Smith Diwan, l’attacco trascende le divisioni interne – compreso l’embargo contro il Qatar del 2017 – e viene percepito come una minaccia esistenziale alla sovranità collettiva della regione. Il giorno successivo al raid, il presidente emiratino Mohammed bin Zayed si è recato a Doha per incontrare l’emiro Tamim bin Hamad al-Thani, segnale inequivocabile di una convergenza tattica di fronte a un nemico comune.
Washington tra ambiguità e perdita di credibilità
Un nodo cruciale riguarda il grado di coinvolgimento statunitense. Secondo fonti citate dalla CNN e dal Jerusalem Post, Washington avrebbe dato un via libera informale all’operazione. Tuttavia, altre ricostruzioni – tra cui quella della giornalista Laura Rozen – indicano che Donald Trump, furioso per essere stato tenuto all’oscuro, abbia chiesto immediati chiarimenti a Netanyahu.
Questa ambiguità danneggia la credibilità degli Stati Uniti agli occhi degli alleati del Golfo. Come sintetizza un report di Axios, Doha starebbe valutando persino la revisione della sua partnership strategica con Washington, sebbene questa ipotesi sia stata ufficialmente smentita dal Qatar. In prospettiva, la domanda che si impone nelle capitali arabe è netta: a che serve essere alleati di Washington, se l’amico del mio amico può colpirmi impunemente?
Chi può sostituire Doha nella mediazione?
L’attacco israeliano ha un impatto devastante anche sulla diplomazia regionale. Se Doha non è più percepita come uno spazio sicuro per ospitare negoziati, chi potrebbe assumere questo ruolo? Le opzioni sono limitate e problematiche:
- Oman, tradizionalmente mediatore tra Iran, Houthi e Stati Uniti, potrebbe offrire una piattaforma negoziale, ma il rischio di essere a sua volta colpito da Tel Aviv è oggi più alto che mai.
- Turchia, che ospita già esponenti di Hamas, avrebbe la capacità di mediare, ma la sua posizione apertamente filo-palestinese la rende difficilmente accettabile a Israele.
- Egitto, storicamente coinvolto nella gestione del dossier Gaza, resta un attore chiave, ma la sua legittimità come garante neutrale è stata erosa da anni di tensioni con Hamas e da una politica regionale ambivalente.
In mancanza di alternative credibili, il rischio è che il conflitto entri in una fase di “diplomazia a vuoto”, con la progressiva marginalizzazione di ogni tavolo negoziale multilaterale e la crescente militarizzazione delle relazioni regionali.
Un Medio Oriente senza mediatori
L’attacco su Doha non è solo un episodio militare: è un segnale strategico che rimette in discussione gli equilibri consolidati del Medio Oriente. Colpendo il Qatar, Israele ha inviato un messaggio duplice: agli avversari, che nessuno spazio è immune dalla sua proiezione di forza; agli alleati, che l’ordine costruito attorno alla pax americana non è più stabile né prevedibile. In questo nuovo scenario, la ricerca di un mediatore credibile si intreccia con la ridefinizione delle grand strategies del Golfo e con la necessità per Washington di riaffermare la propria leadership. Fino a quando questi nodi resteranno irrisolti, la prospettiva di una soluzione politica al conflitto israelo-palestinese resterà più lontana che mai.
Alessio Zattolo, PhD Student


