GEODI – UNINT

Droni russi in Polonia: una lezione per l’Occidente

L’incursione dei droni russi nello spazio aereo polacco rappresenta un episodio che, pur non essendo deturpante dal punto di vista dei danni materiali, ha messo a nudo in maniera molto evidente le vulnerabilità dell’arsenale occidentale e la delicatezza della postura difensiva NATO sul fianco orientale. Secondo le ricostruzioni, mercoledì 10 settembre tra diciannove e ventitré droni hanno oltrepassato i confini polacchi provenendo con ogni probabilità da territori sotto influenza russa e bielorussa, in concomitanza con un attacco più ampio contro città e infrastrutture ucraine.

L’incursione dei droni russi nello spazio aereo polacco rappresenta un episodio che, pur non essendo deturpante dal punto di vista dei danni materiali, ha messo a nudo in maniera molto evidente le vulnerabilità dell’arsenale occidentale e la delicatezza della postura difensiva NATO sul fianco orientale. Secondo le ricostruzioni, mercoledì 10 settembre tra diciannove e ventitré droni hanno oltrepassato i confini polacchi provenendo con ogni probabilità da territori sotto influenza russa e bielorussa, in concomitanza con un attacco più ampio contro città e infrastrutture ucraine

La Polonia ha reagito mobilitando caccia F-16, elicotteri, sistemi radar e persino batterie Patriot, riuscendo ad abbattere solo una parte dei velivoli, mentre alcuni hanno colpito edifici civili o sono caduti in aree rurali senza causare vittime. L’Ucraina non utilizza tali equipaggiamenti per contrastare ondate di droni russi, che possono arrivare a centinaia in una notte qualsiasi; ha invece sviluppato i propri contro-droni, molto economici, per neutralizzare le minacce russe in arrivo. L’alleanza ha abbattuto circa tre droni, mentre in situazioni simili Kiev solitamente rivendica un tasso di intercettazione dell’80-90%, nonostante abbia dovuto affrontare attacchi molto più estesi. La sproporzione tra il numero di droni entrati e quello effettivamente neutralizzato ha messo in luce un dato cruciale: difendersi da sciami di UAV relativamente economici e in parte non armati richiede un approccio completamente diverso rispetto a quello impiegato per intercettare missili da crociera o bombardieri convenzionali.

Un missile aria-aria lanciato da un jet o un intercettore Patriot hanno costi che superano di gran lunga il valore di un drone russo Gerbera, eppure la Polonia non ha potuto far altro che impiegare questi mezzi perché priva di un arsenale “intermedio”, fatto di armi leggere anti-drone, laser, jammer elettronici o droni intercettori, concepiti specificamente per neutralizzare bersagli lenti e a bassa quota. Questo squilibrio crea un evidente vantaggio strategico per Mosca, che può usare sciami di UAV non solo per colpire infrastrutture ma soprattutto per testare in tempo reale la reattività NATO, costringendola a bruciare risorse, logistica e tempo per rispondere. 

L’incursione in Polonia non è un evento isolato, ma si colloca in una sequenza più ampia di episodi simili verificatisi negli ultimi due anni. Già nel 2023 e 2024, droni russi avevano attraversato lo spazio aereo della Romania e della Lituania, in entrambi i casi durante campagne di bombardamento sull’Ucraina. Nella regione di Tulcea, in Romania, a fine maggio 2025 alcuni UAV si erano addirittura schiantati a pochi chilometri dal confine con conseguenze minime sul piano materiale ma con un impatto politico considerevole, dato che costrinsero Bucarest a protestare ufficialmente e ad avviare consultazioni con i partner NATO. In Lituania, episodi analoghi avevano generato allarmi nei radar e costretto le forze aeree baltiche, già ridotte numericamente, a mobilitazioni straordinarie. 

Infine, il Ministero della Difesa rumeno ha confermato che un drone russo Geran è entrato nello spazio aereo rumeno il 13 settembre durante un’ondata di attacchi russi diretti all’Ucraina meridionale.Il drone ha volato per circa 10 chilometri nel territorio rumeno ed è rimasto lì per circa 50 minuti prima di riprendere la sua rotta verso l’Ucraina. Gli F-16 rumeni sono stati fatti decollare in risposta e, secondo quanto riferito, sono arrivati ​​”molto vicini” a colpirlo, ma hanno trattenuto il fuoco per evitare il rischio di danni collaterali. In tutti questi casi, la costante è la stessa: Mosca utilizza incursioni limitate per misurare la soglia di tolleranza occidentale e per logorare psicologicamente e logisticamente i paesi più esposti.

Dal punto di vista tecnico, le difficoltà riscontrate da Polonia, Romania e Lituania rivelano la mancanza di una vera difesa aerea multilivello in Europa orientale. I sistemi più avanzati coprono bene minacce ad alta quota o ad alta velocità, ma il livello intermedio, quello dedicato a droni di piccole dimensioni, risulta lacunoso. Ne consegue che i radar faticano a tracciare obiettivi piccoli e lenti, i caccia non dispongono sempre di armi adeguate ad abbatterli senza sprecare missili di grande valore, e le unità terrestri non hanno ancora a disposizione un arsenale sufficientemente distribuito di sistemi anti-drone a corto raggio. Ciò rappresenta non solo un problema tecnico, ma anche strategico: difendere il territorio di paesi estesi come la Polonia significa avere copertura costante e diffusa, e dunque un numero elevatissimo di asset.

Dal punto di vista politico, Varsavia ha reagito invocando l’Articolo 4 del Trattato NATO, chiedendo consultazioni immediate con gli alleati. Non si è parlato di attivare l’Articolo 5, che sancirebbe la difesa collettiva, proprio perché la Russia sembra calibrata nel mantenere queste azioni nella “zona grigia”: abbastanza provocatorie da testare i confini, ma non tali da costituire un casus belli conclamato. La stessa logica già vista con la Romania e i paesi baltici: incursioni che non provocano vittime di massa, ma che alimentano tensione, costringono a mobilitazioni, generano costi e fanno emergere fratture interne all’Alleanza tra chi vorrebbe risposte più dure e chi teme l’escalation.

Il messaggio che trapela da questa sequenza di episodi è duplice. Da un lato, la Russia dimostra di aver individuato un punto debole strutturale delle difese occidentali, ossia l’incapacità di gestire su larga scala minacce economiche, numerose e ripetute come sciami di droni. Dall’altro, la NATO è costretta a confrontarsi con la necessità di ripensare i propri arsenali, non più solo centrati su piattaforme costosissime e high-tech, ma anche su strumenti più “banali” ma fondamentali per la resilienza quotidiana. La lezione che arriva dalla Polonia, così come da Romania e Lituania, è che la deterrenza moderna non può più essere valutata solo in termini di grandi sistemi d’arma, ma deve comprendere la capacità di gestire, in maniera capillare e sostenibile, un conflitto a bassa intensità che rischia di diventare permanente lungo i confini orientali dell’Europa.

 

Stefano Lovi – PhD candidate

Coordinamento a cura di Ciro Sbailò

Università degli Studi Internazionali di Roma - UNINT

Via Cristoforo Colombo, 200 - 00147 Roma | C.F. 97136680580 | P.I. 05639791002 | Codice SDI: M5UXCR1 | Mail: geodi@unint.eu