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Gaza City sotto assedio: la ripetizione di un copione logorato

L’offensiva di terra contro Gaza City inaugurata in questi giorni dall’esercito israeliano appare come la riedizione di un copione già visto. Secondo The Economist, la campagna militare ricorda la prima grande offensiva lanciata all’inizio del conflitto: anche allora le colonne corazzate dell’IDF avevano devastato la città con l’obiettivo dichiarato di annientare Hamas. Tuttavia, come osserva la rivista britannica, queste operazioni, lungi dal portare a una vittoria strategica, hanno finito per aggravare le sofferenze della popolazione civile e isolare ulteriormente Israele sul piano internazionale.

L’offensiva di terra contro Gaza City inaugurata in questi giorni dall’esercito israeliano appare come la riedizione di un copione già visto. Secondo The Economist, la campagna militare ricorda la prima grande offensiva lanciata all’inizio del conflitto: anche allora le colonne corazzate dell’IDF avevano devastato la città con l’obiettivo dichiarato di annientare Hamas. Tuttavia, come osserva la rivista britannica, queste operazioni, lungi dal portare a una vittoria strategica, hanno finito per aggravare le sofferenze della popolazione civile e isolare ulteriormente Israele sul piano internazionale.

A rendere ancora più delicata la situazione vi è la recente conclusione di una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite, che ha formalmente accusato lo Stato ebraico di genocidio nei confronti dei palestinesi nella Striscia di Gaza. Nonostante questo, il governo israeliano considera l’assalto a Gaza City come la via privilegiata per ottenere la liberazione dei 48 ostaggi ancora detenuti da Hamas.

Sfollamenti di massa e crisi umanitaria estrema

Il Times of Israel ha riferito che l’esercito ha chiuso una delle vie di evacuazione verso il sud della Striscia, aperta solo pochi giorni prima. La decisione ha ulteriormente complicato la fuga dei civili, già esasperati da continui spostamenti, dalla carenza di cibo e dalla distruzione sistematica delle infrastrutture urbane.
Le stime sul numero di sfollati variano: l’esercito israeliano parla di 350.000 persone, Hamas di 190.000, mentre l’ONU ha calcolato circa 220.000. Il dato più allarmante riguarda la distruzione materiale: negli ultimi dieci giorni, le forze israeliane avrebbero raso al suolo circa 1.700 edifici e oltre 13.000 tende per sfollati, lasciando senza riparo almeno 100.000 persone.

Il Washington Post ha documentato, attraverso immagini e testimonianze dirette, l’ennesimo esodo forzato della popolazione gazawi, mentre le scuole, che avrebbero dovuto riaprire in questi giorni, continuano a essere utilizzate come rifugi di fortuna. Padre Ibrahim Faltas, direttore delle scuole della Custodia di Terra Santa, ha denunciato a Vatican News la drammatica situazione della comunità cristiana di Gaza, con la parrocchia latina della Sacra Famiglia trasformata in un centro di accoglienza per rifugiati e disabili. A luglio, l’edificio era stato già colpito da un raid israeliano che aveva suscitato critiche da parte degli alleati occidentali.

I dati forniti da UNICEF e dalle autorità locali sono impietosi: in 23 mesi di conflitto, oltre 18.000 bambini sono stati uccisi, con una media di 28 vittime al giorno. Più di 42.000 risultano feriti e almeno 21.000 hanno subito amputazioni o disabilità permanenti. Migliaia di minori restano dispersi o sepolti sotto le macerie.

Hamas, ostaggi e il dilemma militare

Secondo il Wall Street Journal, l’avanzata israeliana ha subito un rallentamento negli ultimi giorni a causa delle crescenti preoccupazioni per la sorte degli ostaggi. Hamas ha minacciato di ucciderli nel caso di un tentativo di liberazione con la forza, mentre la fitta urbanizzazione della città aumenta il rischio di vittime collaterali.

Haaretz ha sottolineato le tensioni interne alle IDF: il Capo di Stato Maggiore Eyal Zamir, contrario a una campagna rapida e su vasta scala, avrebbe imposto una strategia di progressione lenta per ridurre le perdite tra i soldati e limitare i danni collaterali. Ciò contrasta con le aspettative politiche di Netanyahu e con la narrativa sostenuta dal presidente statunitense Donald Trump, che auspicava risultati rapidi e decisivi.

Critiche interne e isolamento internazionale

All’interno della società israeliana si moltiplicano le voci critiche. L’attivista e giornalista Orly Noy – di origine iraniana – che scrive su +972 Magazine, ha definito le azioni dell’esercito a Gaza un atto di annientamento sistematico, radicato in una logica etno-suprematista che, a suo avviso, caratterizza l’ideologia sionista. Questa posizione estrema riflette il crescente disagio di una parte della popolazione di fronte a un conflitto percepito come infinito e privo di una prospettiva politica.

Sul piano internazionale, Israele si trova in una posizione sempre più isolata. Il Middle East Eye ha riportato che gli Stati Uniti hanno nuovamente posto il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che chiedeva un cessate il fuoco immediato. Steven A. Cook, su Foreign Policy, ha criticato l’incoerenza della politica americana in Medio Oriente, evidenziando il divario tra la realtà sul terreno e le narrazioni politiche di Washington.

Cook ha anche sottolineato come le proposte di soluzione a due Stati si basino su riferimenti ormai obsoleti, legati a leader israeliani che appartengono a un passato remoto. A suo giudizio, Hamas non deporrà le armi se non per costrizione, e finora la potenza di fuoco israeliana non è riuscita a ottenere la sottomissione del movimento.

Il sostegno americano in crisi

Secondo The Economist, Israele dipende sempre più dal sostegno statunitense, ma la tenuta di questa alleanza non può essere data per scontata. I dati dei sondaggi evidenziano un mutamento profondo nell’opinione pubblica americana:

  • nel 2022, il 42% degli adulti negli Stati Uniti aveva un’opinione negativa di Israele, oggi la percentuale è salita al 53%;

  • il 43% degli intervistati ritiene che Israele stia commettendo un genocidio a Gaza;

  • tra i democratici over 50, l’aumento di opinioni sfavorevoli è stato di 23 punti percentuali in tre anni;

  • tra i repubblicani under 50, il sostegno a Israele è sceso dal 63% del 2022 a una spaccatura pressoché equa;

  • tra gli evangelici under 30, la percentuale di chi sostiene Israele è crollata dal 69% al 34% tra il 2018 e il 2021.

Questi numeri segnalano un cambiamento duraturo che potrebbe, nel medio periodo, ridurre la libertà d’azione di Tel Aviv e complicare la strategia di Netanyahu, soprattutto se le operazioni a Gaza continueranno a produrre immagini di devastazione e sofferenza che alimentano la condanna internazionale.

Un conflitto senza uscita

La nuova offensiva israeliana su Gaza City non sembra avvicinare la fine della guerra. Al contrario, produce un doppio effetto destabilizzante: sul piano locale, aumenta la disperazione di una popolazione stremata e priva di vie di fuga; sul piano internazionale, consolida l’isolamento diplomatico di Israele e logora i rapporti con Washington.

In assenza di un processo politico credibile, la ripetizione di un copione militare già visto rischia di lasciare solo macerie – fisiche e diplomatiche – senza affrontare le radici profonde del conflitto israelo-palestinese.

Alessio Zattolo – PhD Student

Coordinamento a cura di Ciro Sbailò

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