UK, Canada e il ruolo dei paesi esterni nel programma SAFE
- 26 Settembre 2025

Negli ultimi mesi, l’Unione Europea ha compiuto passi concreti verso l’inclusione di stati esterni nel suo grande piano per rafforzare la capacità difensiva collettiva, il cosiddetto SAFE (Security Action for Europe), un meccanismo di prestiti per circa €150 miliardi destinati agli Stati membri per potenziare la produzione di armamenti e aumentare la prontezza militare. Il programma SAFE è stato proposto dalla Commissione Europea a marzo e approvato dai Paesi membri a maggio. L’obiettivo è quello di concedere ai Paesi dell’UE prestiti a basso tasso di interesse, rimborsabili in 45 anni, per l’acquisto di armi e incoraggiare i Paesi a collaborare per ridurre i costi di approvvigionamento. Tali accordi sono aperti ai Paesi dell’UE, nonché a Ucraina, Norvegia, membri dell’Associazione Europea di Libero Scambio, Paesi che hanno presentato domanda di adesione all’UE e Paesi con patti di difesa con l’Unione.
Recentemente, il Consiglio dell’UE ha dato mandato alla Commissione per avviare trattative con Regno Unito e Canada affinché possano partecipare al SAFE, non solo a titolo di semplici osservatori, ma in modo operativo, consentendo alle imprese britanniche e canadesi di essere parte delle catene di approvvigionamento per progetti congiunti e contribuirvi tecnicamente e industrialmente.
Le linee negoziali, tuttavia, al momento sono tutt’altro che trasparenti: da un lato c’è accordo su principi generali come “reciprocità” e “sicurezza degli approvvigionamenti”, dall’altro emergono divergenze su condizioni concrete; quanto dovranno pagare UK e Canada per aderire? Che quota del valore dei contratti potrà andare a componenti prodotte fuori dall’UE? Quali garanzie di controllo sull’uso e destinazione dei materiali? Questioni non banali, che influenzano la sovranità, la protezione delle tecnologie sensibili, e gli equilibri politici tra stati membri. Nell’ambito del programma SAFE, i paesi terzi possono rappresentare al massimo il 35% del valore di un sistema d’arma, ma le regole per i paesi partecipanti, tra cui anche Canada e Regno Unito se dovessero ottenere l’approvazione, devono ancora essere stabilite.
Alcune nazioni, tra cui la Francia, sono sembrate più caute di altre: Parigi avrebbe proposto un tetto, ad esempio che non più del 50% del valore dei componenti in un progetto SAFE possa provenire dal Regno Unito, qualora il Regno Unito venga ammesso. Questa proposta riflette la volontà di proteggere la cosiddetta “industria europea di difesa”, preservare l’autonomia strategica, e evitare che l’apertura a paesi esterni sminuisca il vantaggio competitivo interno. Sebbene tale idea abbia incontrato un certo favore presso alcuni paesi come Grecia e Cipro, alla fine il mandato della Commissione non prevede tale limite.
Durante l’incontro di mercoledì 17 settembre con gli ambasciatori, la Commissione ha sottolineato che i paesi terzi che prendono parte al programma SAFE dovranno contribuire ai costi amministrativi e versare quote di partecipazione, secondo quanto dichiarato da un diplomatico a conoscenza della discussione. Quanto più un paese terzo ne trae vantaggio, tanto più alta sarà la tariffa, il che potrebbe significare che i due accordi con il Regno Unito e il Canada potrebbero finire per essere molto diversi.
L’ingresso di UK e Canada comporterebbe diversi vantaggi. Le loro imprese hanno competenze già molto avanzate nei settori dell’armamento, dei sistemi navali, dei velivoli, della logistica, delle tecnologie hi-tech (cyber, satelliti, sensoristica). La loro partecipazione può accelerare la produzione, aumentare la varietà di opzioni tecniche, migliorare l’interoperabilità di fatto con le forze europee. Ma c’è il rischio che condizioni non calibrate possano generare rischi pratici: se componenti chiave, come motori, sistemi elettronici sensibili e software, restano sotto controllo non europeo, l’UE potrebbe trovarsi con problemi di controllo sull’uso finale, di dipendenza o di rischio che licenze o restrizioni esterne influenzano la disponibilità operativa.
Inoltre, quando si parla di joint procurement, occorre garantire che le specifiche militari, le norme tecniche siano armonizzate: non basta solo che un’impresa esterna possa offrire un pezzo; bisogna che quel pezzo si integri nel sistema europeo in termini di standard, manutenzione, riparabilità, supporto logistico, addestramento, e anche che ci siano regole chiare su certificazione e uso.
In parallelo, il Regno Unito, pur uscito dall’Unione, mantiene un’industria della difesa rilevante, spesso con produzioni riconosciute come d’eccellenza e con catene che già operano con partner europei. Parteciparvi potrebbe rappresentare sia un’opportunità per il riavvicinamento industriale, sia una sfida per garantire che non emergano conflitti su regole regolatorie, proprietà intellettuale, standard e controlli sulle esportazioni.
Strategicamente, l’apertura verso queste nazioni è indicativa di un cambiamento nella percezione del rischio: l’Unione capisce che, con la crescente minaccia russa ma anche le incertezze dello spazio transatlantico (in termini di politica USA, impegni a lungo termine), non può contare solo su imprese interne o solo sugli Stati membri per potenziare rapidamente capacità difensive. Serve ampliare la base industriale, sfruttare alleanze, integrare competenze esterne. Il Canada, ad esempio, già cooperava con l’UE su missioni, sulle capacità marittime, sulla mobilità militare, sicurezza cibernetica, ibrida etc., ma questa apertura potrebbe permettergli di essere parte non solo di “dialoghi” ma di produzione materiale congiunta.
Per concludere, non si tratta del primo caso di apertura dell’industria militare a paesi extra Ue. Con l’Australia, per esempio, si è avviata negoziazione per una Security and Defence Partnership simile, con l’obiettivo che anche l’industria australiana acceda a SAFE o ad altri programmi europei di procurement congiunto. Ciò riflette lo stesso modello: firmare un accordo di sicurezza, per poi negoziare termini tecnici ed economici.
Con Norvegia, Svizzera e alcuni paesi candidati all’UE, il modello è già operativo: queste nazioni hanno accordi che consentono loro di partecipare a progetti europei congiunti, offrire componenti, collaborare nella difesa europea in termini di produzione, standard, esercitazioni. Ciò ha già portato benefici in termini di interoperabilità e capacità, ma anche mostrato limiti: la velocità di decisione, le catene logistiche lunghe, la dipendenza da componenti esterni in alcuni settori strategici (es. semiconduttori, sensoristica, elettronica militare) restano fattori critici.
Stefano Lovi – PhD candidate


