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Shahed, la corsa dell’Occidente a imitare il drone made in Iran

La guerra in Ucraina e la crescente cooperazione tecnologica tra Iran, Russia e Corea del Nord stanno ridefinendo la competizione globale nel settore delle tecnologie droniche. Come ha rivelato il Wall Street Journal, Stati Uniti e alleati stanno sviluppando nuovi UAV a basso costo ispirati al modello iraniano Shahed, che ha dimostrato di poter alterare radicalmente le dinamiche del campo di battaglia.

La guerra in Ucraina e la crescente cooperazione tecnologica tra Iran, Russia e Corea del Nord stanno ridefinendo la competizione globale nel settore delle tecnologie droniche. Come ha rivelato il Wall Street Journal, Stati Uniti e alleati stanno sviluppando nuovi UAV a basso costo ispirati al modello iraniano Shahed, che ha dimostrato di poter alterare radicalmente le dinamiche del campo di battaglia.

Anche la testata persiana Iran International ha confermato che questo sistema, nato come risposta di Teheran ai droni israeliani di lunga gittata, si è imposto come una delle tecnologie militari più dirompenti degli ultimi vent’anni. Il risultato è una vera e propria corsa all’imitazione, in cui l’obiettivo non è più solo la supremazia tecnologica, ma la capacità di produrre rapidamente grandi volumi di sistemi d’attacco.

Shahed: semplicità ed efficacia di un’arma di saturazione

Il Shahed-136, sviluppato nei primi anni Duemila, è un drone suicida concepito per saturare le difese avversarie attraverso attacchi coordinati. La struttura a ala delta, la propulsione a elica e i sistemi di guida GPS e inerziali ne fanno un’arma semplice, affidabile ed estremamente economica.

La sua efficacia si basa sulla logica della quantità: impiegato in sciami, costringe l’avversario a consumare risorse e missili intercettori dal valore molto superiore. Il quotidiano economico americano ha ricordato come, nel luglio 2025, la Russia abbia impiegato oltre 550 Shahed in una sola offensiva contro infrastrutture critiche ucraine, provocando decine di vittime e interruzioni estese delle reti energetiche.

Il vantaggio economico è evidente. Analisti citati dalla testata newyorkese stimano che Mosca possa produrre questi droni con un costo compreso tra 35.000 e 60.000 dollari l’uno, mentre un UAV occidentale di lunga gittata come l’“Altius” statunitense supera il milione di dollari, considerando addestramento e logistica. Questa sproporzione crea un vantaggio strutturale per chi può puntare sulla produzione di massa, anche con sistemi tecnologicamente più semplici.

L’imitazione occidentale: tra innovazione e limiti strutturali

Di fronte a questo scenario, Washington ha accelerato lo sviluppo di piattaforme alternative. Secondo il giornale finanziario americano, durante un evento del Pentagono sono stati presentati 18 prototipi di droni, molti chiaramente ispirati al modello iraniano. Tra i più promettenti figurano “Lucas”, sviluppato da SpectreWorks, e “Arrowhead” di Griffon Aerospace, concepiti per missioni di saturazione simili a quelle condotte dagli Shahed.

Anche Londra si sta muovendo nella stessa direzione. Una fonte specializzata nella difesa ha segnalato che il drone SkyShark, prodotto nel Regno Unito, punta sulla velocità: con una capacità di oltre 450 km/h, è più del doppio rispetto ai circa 186 km/h stimati per il modello iraniano. Questo consente missioni più rapide e un raggio d’azione più flessibile, a fronte di costi comunque elevati.

L’Europa continentale non vuole restare indietro. Durante il Paris Air Show 2025, il colosso europeo MBDA ha presentato il progetto One-Way Effector, un drone d’attacco concepito per riportare la “massa” nelle forze armate europee. Secondo i responsabili dell’azienda, l’obiettivo è colmare la lacuna nella capacità europea di disporre di armamenti a basso costo e alta disponibilità, capaci di saturare le difese nemiche. Il drone, lungo tre metri e mezzo, avrà un motore a reazione, garantendo una velocità quasi doppia rispetto agli Shahed, pur con autonomia e carico esplosivo inferiori.

Il programma prevede la produzione di circa 1.000 unità al mese, grazie a un accordo con un grande gruppo automobilistico francese. L’uso di componenti commerciali, comprese testate di artiglieria standard da 155 mm, dovrebbe contenere i costi e accelerare i tempi di consegna. L’arma sarà lanciata da rampe terrestri o veicoli, con guida GPS fino al bersaglio, e potrà essere impiegata in salve coordinate, formando gruppi compatti che puntano a logorare le difese nemiche.

L’asse Iran-Russia-Corea del Nord

La tecnologia Shahed non si limita al conflitto in Ucraina. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha denunciato pubblicamente, in dichiarazioni rilanciate dalla fonte persiana, il trasferimento di know-how verso la Corea del Nord, attraverso Mosca. Pyongyang starebbe già allestendo impianti per produrre copie ribattezzate “Geran” e collaborerebbe con la Russia anche su programmi missilistici.

Questo “asse dronico” tra Paesi percepiti come rogue states rafforza la capacità di resilienza di Mosca e Teheran, creando una rete di scambio tecnologico che complica le strategie occidentali in Asia e Medio Oriente. La diffusione di queste tecnologie potrebbe alimentare nuovi conflitti regionali e minare gli equilibri esistenti.

Implicazioni per Israele e il Medio Oriente

Il Medio Oriente rimane uno dei principali teatri di utilizzo dei droni Shahed. Israele, storicamente in prima linea nello sviluppo di sistemi antiaerei, deve oggi fronteggiare una minaccia asimmetrica e a basso costo. Sciami di UAV economici, impiegati da milizie filo-iraniane in Siria, Iraq e Yemen, possono mettere in difficoltà sistemi come l’Iron Dome, pensati per intercettare missili più costosi e meno numerosi.

Nel gennaio 2025 un attacco contro una base statunitense in Giordania, attribuito a un gruppo pro-iraniano, ha provocato la morte di diversi militari americani. Episodi simili rischiano di moltiplicarsi, aumentando la pressione non solo su Tel Aviv, ma anche sugli alleati occidentali presenti nella regione.

Una minaccia globale e industriale

James Patton Rogers, esperto di droni della Cornell University, intervistato dal WSJ, ha definito l’impiego massiccio degli Shahed un vero “game changer”. L’elemento rivoluzionario non è tanto la singola unità, quanto la capacità di produrla e impiegarla in grandi quantità, destabilizzando fronti di guerra con investimenti limitati.

A Occidente come a Oriente, la partita si gioca ormai sulla filiera industriale: chi controlla la produzione e la distribuzione di droni suicidi a basso costo ottiene un vantaggio strategico paragonabile a quello che, nel secolo scorso, derivava dal controllo della produzione bellica convenzionale.

Dalla supremazia tecnologica alla supremazia numerica

La corsa occidentale a replicare il modello Shahed evidenzia una transizione epocale. Non basta più disporre di aerei stealth o missili ipersonici: la supremazia aerea si giocherà sempre più sulla capacità di integrare quantità e intelligenza artificiale.

Gli alleati della NATO dovranno sviluppare difese multilivello contro attacchi saturanti, investire in sistemi di contromisura elettronica e laser, e costruire catene industriali capaci di produrre non centinaia, ma migliaia di UAV al mese.

Se questa trasformazione non sarà realizzata con rapidità, il rischio è che Teheran e i suoi partner dettino le regole di una nuova era bellica, proiettando la loro influenza ben oltre l’Ucraina e fino al cuore del Mediterraneo e del Golfo Persico.

Alessio Zattolo – Phd Student

Coordinamento a cura di Ciro Sbailò

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