I fondi russi congelati e il dilemma europeo: il difficile parallelo con le guerre mondiali
- 3 Ottobre 2025

La Commissione europea sta discutendo una proposta ambiziosa quanto controversa: trasformare i beni russi congelati all’interno dei confini comunitari in una fonte strutturale di finanziamento per l’Ucraina. La Commissione, insieme ai governi degli Stati membri, sta valutando un meccanismo che permetta di concedere un prestito a Kiev, garantito con i circa 200-210 miliardi di euro di asset russi immobilizzati in seguito all’invasione del 2022. Si tratta di riserve della banca centrale e di altri strumenti finanziari, gran parte dei quali custoditi presso Euroclear, il colosso belga della custodia titoli.
L’idea non nasce nel vuoto. I cosiddetti windfall profits, ovvero gli interessi generati da questi asset, vengono utilizzati da più di un anno per sostenere lo sforzo bellico e le necessità di bilancio ucraine. Questo approccio utilizzato finora aveva il vantaggio di preservare il capitale, considerato intoccabile secondo l’attuale interpretazione del diritto internazionale, riducendo il rischio di contenziosi e mantenendo una relativa coesione politica tra i Ventisette. Tuttavia, i rendimenti prodotti dagli asset, pur non trascurabili, restano insufficienti rispetto alle necessità finanziarie di Kiev, che ammontano a decine di miliardi di euro l’anno.
La recente proposta di andare oltre e di usare gli asset come garanzia per un prestito ha un potenziale di gran lunga superiore. In questo scenario, l’UE emetterebbe un prestito estremamente sostanzioso, in grado di fornire risorse immediate all’Ucraina, con la prospettiva di ripagarlo in futuro attraverso le riparazioni dovute dalla Russia una volta concluso il conflitto. Ciò garantirebbe liquidità immediata, rispondendo a un bisogno urgente di finanziamenti per la difesa, le infrastrutture e la gestione dello Stato. Ma è anche lo scenario più controverso, perché solleva interrogativi giuridici e politici complessi. Qualsiasi uso diretto degli asset russi rischia di essere interpretato come una forma di espropriazione, violando principi consolidati del diritto internazionale che tutelano la proprietà statale sovrana.
A pesare è anche la dimensione politica. Per un passo così radicale servirebbe un consenso unanime, ma diversi Stati membri, dall’Ungheria alla Slovacchia, hanno già espresso dubbi o opposizioni. In questo caso, non si tratta soltanto di divergenze ideologiche, ma il timore per molti governi di quello che un precedente simile potrebbe generare in futuro. Se beni statali congelati possono essere usati in questo modo, altri paesi potrebbero diffidare a custodire riserve all’estero, con possibili conseguenze negative per la stabilità del sistema finanziario globale.
Per ridurre i rischi, si discute anche di una formula intermedia: la creazione di un veicolo finanziario ad hoc, un fondo europeo che avrebbe la funzione di gestire gli asset congelati, investendoli in maniera controllata e utilizzando i profitti per alimentare prestiti o trasferimenti a Kiev. Un modello di questo tipo avrebbe il pregio di isolare i rischi legali e reputazionali, ma richiederebbe un’architettura complessa e una forte trasparenza, oltre a impegni finanziari diretti da parte dei governi.
Nella storia recente, non ci sono casi simili a questo. Dopo la Prima guerra mondiale, il caso più emblematico riguarda la Germania e le riparazioni imposte dal Trattato di Versailles. Berlino fu costretta a pagare ingenti somme ai paesi vincitori per risarcire i danni di guerra, sia in denaro sia attraverso trasferimenti di beni materiali come carbone, acciaio e prodotti agricoli. Non si trattava di beni congelati all’estero, ma di risorse direttamente prelevate dall’economia tedesca. Nel tempo emerse l’impossibilità di sostenere un impegno così gravoso, soprattutto con la crisi economica degli anni Venti e la Grande Depressione. Questo portò alla Conferenza di Losanna del 1932, dove le potenze alleate ridussero drasticamente gli obblighi di riparazione, riconoscendo che il paese non era in grado di rispettarli.
Dopo la Seconda guerra mondiale gli esempi sono ben diversi; oltre alle riparazioni economiche, ci fu una vasta confisca e redistribuzione di beni appartenenti alla Germania e alle potenze dell’Asse. L’Unione Sovietica, con l’operazione Osoaviakhim, smantellò interi complessi industriali tedeschi, presenti nella zona est di Berlino, trasferendoli sul proprio territorio come forma di riparazione, un’azione che non solo privò la Germania delle sue risorse, ma contribuì allo sviluppo dell’industria sovietica nel dopoguerra. Tuttavia, qua si tratta di un trasferimento di asset alla potenza vincitrice in accordo alle riparazioni post-belliche, ben diverso dall’esproprio di beni presenti in paesi non belligeranti mentre il conflitto è ancora in corso.
Negli Stati Uniti, invece, il War Claims Act del 1948 stabilì che i beni tedeschi e giapponesi sequestrati durante la guerra venissero liquidati per compensare cittadini americani che avevano subito danni, come prigionieri di guerra o civili coinvolti nel conflitto. In Gran Bretagna, lo stesso principio ispirò programmi come l’Enemy Property Claims Assessment Panel, che serviva a valutare e compensare richieste relative a beni confiscati durante la guerra a cittadini o soggetti perseguitati dal regime nazista. In entrambi i casi, le confische avvenivano in seguito a trattati di pace o a decisioni unilaterali delle potenze vincitrici, e si trattava spesso di beni materiali, impianti industriali o proprietà fisiche, non di asset finanziari custoditi all’estero. Oggi, invece, il nodo giuridico centrale riguarda proprio la natura di questi beni congelati: si tratta di riserve statali russe detenute in conti e depositi internazionali, formalmente intatte, e la loro trasformazione in garanzia per un prestito richiede basi legali molto più solide rispetto a quelle applicate in passato.
L’Europa si trova dunque davanti a un bivio. Limitarsi all’uso dei proventi degli asset congelati è una strada più sicura e sostenibile sul piano legale e politico, ma rischia di rivelarsi insufficiente in termini finanziari. Sfruttare gli asset come garanzia per un prestito offrirebbe risorse più ampie e immediate, ma al prezzo di forti rischi di contenzioso e di fratture interne. Creare un veicolo ad hoc potrebbe essere una soluzione di compromesso, in grado di bilanciare esigenze legali, finanziarie e politiche, ma richiede tempo e una governance credibile.
Nel frattempo, Kiev ha bisogno di fondi immediati. Ogni giorno sciupato in procedure e negoziati si traduce in difficoltà crescenti sul fronte militare e in nuove fragilità per la società ucraina. La sfida odierna per l’Unione Europea è conciliare la prudenza legale e la necessità politica con l’urgenza concreta di sostenere un paese che combatte non solo per la propria sopravvivenza, ma per la sicurezza dell’intero continente.
Stefano Lovi – PhD Candidate


