Budapest, Putin e Trump: il vertice che non verrà
- 24 Ottobre 2025
Quando, all’inizio di ottobre, si era diffusa la notizia di un possibile incontro a Budapest tra Donald Trump e Vladimir Putin, la capitale ungherese era tornata per qualche giorno al centro della diplomazia mondiale. L’idea di un vertice nella città del Memorandum del 1994, simbolo delle garanzie infrante all’Ucraina, evocava una possibile svolta. Ma, come spesso accade nella politica internazionale, la realtà si è incaricata di smontare le aspettative: l’incontro non si farà, visto che il progetto si è arenato tra ambiguità politiche e vincoli giuridici. Orbán, che sperava di accreditarsi come “ponte” fra Est e Ovest, si ritrova nuovamente nel ruolo di provocatore isolato: capace di attirare l’attenzione, ma non di incidere realmente sul processo negoziale.
Fonti statunitensi e russe, confermate da Budapest, parlano di una serie di ostacoli tecnici e politici insormontabili. Da un lato, Washington ha preferito evitare un’iniziativa che avrebbe potuto essere letta come una legittimazione di Putin in piena campagna elettorale americana. Lo staff di Trump avrebbe giudicato “prematuro” un incontro senza una cornice diplomatica definita e con un alto rischio d’impatto negativo sull’opinione pubblica occidentale.
Dall’altro lato, il fattore giuridico è stato centrale. L’arresto internazionale emesso dalla Corte Penale Internazionale (ICC) nei confronti di Vladimir Putin per presunti crimini relativi alle deportazioni di minori dall’Ucraina rimane un ostacolo pratico: se il presidente russo avesse attraversato o messo piede su territorio di uno Stato membro dell’ICC, gli Stati avrebbero l’obbligo legale di arrestarlo. Budapest ha provato a sostenere che garantirà il passaggio di Putin, ma tale garanzia è politicamente esplosiva e giuridicamente contestabile. A questo si aggiungono ragioni logistiche e di sicurezza: il sorvolo di spazi aerei NATO, il rischio di sanzioni secondarie, e la crescente pressione di alcuni Stati membri dell’UE (tra cui Germania e Polonia) che hanno avvertito Orbán di non trasformare Budapest in una “zona franca” per la diplomazia del Cremlino.
L’UE, dal canto suo, ha mostrato un approccio ambivalente: alcuni leader hanno detto che un faccia a faccia sarebbe accettabile solo se servisse a un vero percorso di pace, mentre altri hanno espresso netta opposizione, considerandolo di fatto una concessione simbolica a Mosca. Il timore è che Budapest venisse percepita come luogo di legittimazione per la narrativa russa, con conseguenze politiche sull’unità europea.
Nel frattempo, sul terreno il conflitto resta bloccato in una fase di logoramento. L’offensiva russa su Kharkiv e Zaporizhzhia ha prodotto guadagni territoriali limitati ma costosi, mentre le forze ucraine faticano a sostenere le linee difensive per mancanza di uomini e munizioni. La mobilitazione parziale in Ucraina, avviata a settembre, ha alleviato solo in parte la crisi di reclutamento.
Dal lato occidentale, il sostegno militare statunitense ed europeo continua, ma con crescente fatica politica: il Congresso americano ha approvato nuovi fondi con margini ristretti, mentre in Europa emergono divergenze interne, dall’atteggiamento prudente di Parigi e Berlino alla postura più rigida di Varsavia e dei Paesi baltici.
Sul piano diplomatico, i canali di dialogo restano aperti ma sterili. I contatti tra mediatori cinesi, turchi e del Vaticano non hanno prodotto risultati concreti, e la proposta ungherese di un “formato Budapest” è ormai tramontata. Kiev insiste che non accetterà alcuna trattativa che non includa il ritiro russo dai territori occupati; Mosca, al contrario, considera quelle aree “irreversibilmente integrate” nella Federazione.
In questo quadro, il mancato vertice di Budapest diventa il simbolo di una più ampia impasse diplomatica: la pace continua a essere evocata, ma nessuno dei protagonisti principali è disposto, al momento, a pagare il prezzo politico che comporterebbe. Kiev rifiuta ogni trattativa che comporti il riconoscimento delle annessioni o la perdita di sovranità su territori occupati, chiedendo il ritiro completo o accordi che garantiscano reintegrazione. Mentre Mosca pone condizioni che includono fatti compiuti territoriali e sferze di influenza, cercando garanzie di sicurezza e forme di riconoscimento internazionale di alcuni risultati ottenuti sul terreno.
Il vertice che non si farà dice molto più di quello che avrebbe potuto dire se si fosse tenuto.
L’episodio mostra i limiti dell’iniziativa personale di Orbán e, più in generale, la crisi di credibilità della diplomazia europea nel conflitto ucraino, ma anche che un a diplomazia basata su iniziative personali e simboliche fatica a superare ostacoli legali (ICC), vincoli multilaterali (spazio aereo, sanzioni), e contrapposizioni di interesse profondamente radicate. Senza un cambio di strategia condiviso, o una mutazione degli equilibri militari, la guerra rischia di restare sospesa in una zona grigia: troppo viva per cessare, troppo logorata per vincere.
Stefano Lovi – PhD candidate