La crisi nigeriana e il lato oscuro dei sequestri di massa degli studenti
- 28 Novembre 2025
Venerdì 21 novembre, più di 215 studenti e 12 membri del personale sono stati rapiti da uomini armati in una scuola cattolica St Mary a Papiri nella Nigeria centrale, dove le autorità avevano già ordinato la chiusura temporanea di tutti i collegi a causa delle crescenti minacce alla sicurezza: si tratta del secondo rapimento di massa in una scuola questa settimana. A pochi giorni da lì, nello stato di Kebbi, era avvenuto un altro sequestro di massa: 24 studentesse sottratte al loro collegio, con due delle ragazze che sono riuscite a fuggire e decine di famiglie ancora senza notizie. Contemporaneamente un raid su una chiesa nello stato di Kwara ha provocato morti e il rapimento di decine di fedeli, per i quali è stata avanzata una richiesta di riscatto. Questi eventi non sono isolati, ma si inseriscono in un’ondata di violenza che ha preso a ripetersi in più regioni del Paese.
Per capire perché la Nigeria è in questa situazione bisogna partire da una diagnosi a più strati. La prima componente è la criminalità armata organizzata, spesso indicata con il termine locale “banditi”: gruppi che traggono profitto dal rapimento per riscatto attaccano villaggi, bloccano strade e sfruttano la copertura offerta da aree boschive e frontiere interne fragili. La seconda componente è la persistenza di insurrezioni jihadiste nel Nord-Est, dove gruppi come Boko Haram e la sua scissione Iswap continuano a condurre guerre di guerriglia contro lo Stato da oltre un decennio; la loro attività ha contribuito a creare vuoti di sicurezza e a rafforzare circuiti di approvvigionamento illecito di armi e combattenti. La terza componente è la conflittualità rurale nella “Middle Belt” centrale, spesso raccontata in termini religiosi ma che ha radici profonde nella competizione per risorse come terra e acqua tra pastori e agricoltori. A questi elementi si sovrappongono fattori istituzionali: forze di sicurezza sotto finanziate, corruzione, carenze nell’intelligence locale e una limitata capacità statale nelle aree remote. L’interazione di tutte queste dinamiche rende difficile isolare un singolo “colpevole” o attribuire il fenomeno a una sola causa.
Anche il piano della comunicazione e della percezione internazionale conta: figure e ambienti politici esterni hanno iniziato a descrivere gli attacchi attraverso la lente della persecuzione religiosa, sostenendo che i cristiani in Nigeria siano presi di mira come gruppo. Il governo nigeriano respinge questa descrizione, sostenendo che le vittime sono di entrambe le fedi religiose e che i gruppi armati colpiscono chiunque si opponga alla loro violenza. Negli ultimi giorni, affermazioni pubbliche di leader stranieri e segnali di interessamento militare o diplomatico — reali o prospettati — hanno posto lo Stato nigeriano su un piano di pressione internazionale aggiuntiva.
Dal punto di vista della politica interna, la decisione del presidente Bola Tinubu di annullare viaggi esteri programmati per concentrarsi sulla crisi segnala la gravità percepita a livello centrale, ma riecheggia anche critiche su fallimenti operativi e di prevenzione. Le autorità locali avevano emesso ordini di chiusura preventiva dei convitti nella zona per aumentato rischio di attacchi; secondo le dichiarazioni ufficiali, alcune scuole non avrebbero rispettato tali direttive, esponendo studenti e personale a rischi evitabili. Questa dinamica mette in luce una frattura tra livelli di governo, la difficoltà di applicare misure di sicurezza in aree rurali e la pressione economica e sociale che spinge istituzioni e famiglie a riaprire le attività nonostante gli avvertimenti.
A livello sociale, la ripetizione di sequestri scolastici ha costi multipli e duraturi. In termini umanitari, la chiusura prolungata o la perdita di fiducia nelle scuole minacciano l’istruzione di una generazione, con effetti sulla crescita umana e sulle prospettive economiche future. Sul piano della sicurezza regionale, la crescente instabilità interna della Nigeria, che resta la nazione più popolosa dell’Africa e un hub economico per la regione, può innescare flussi di sfollati e operazioni transfrontaliere di gruppi armati, peggiorando la già traballante situazione di sicurezza nel Sahel. Dal lato economico, l’incertezza scoraggia investimenti e turismo e aumenta i costi di sicurezza per imprese e infrastrutture critiche. Inoltre, la narrazione internazionale circa “persecuzioni” religiose rischia di attrarre il sostegno di attori esterni con interessi politicizzati, complicando la gestione autonoma della crisi da parte di Abuja.
L’opzione strettamente militare e di polizia per contrastare il fenomeno può ottenere risultati localizzati, come il recupero rapido di ostaggi o attacchi mirati ai briganti, ma senza un approccio integrato promette di essere inefficace nel lungo periodo. È necessaria una strategia mista che combini il rafforzamento delle capacità di intelligence, una presenza di sicurezza più efficiente nelle aree vulnerabili, programmi di sviluppo locale per ridurre l’attrattiva delle attività criminali e interventi per risolvere le dispute su risorse naturali. Il divieto ufficiale di pagare riscatti mira a tagliare il flusso di denaro che alimenta questi gruppi; nella pratica, tuttavia, il divieto è difficilmente applicabile e spesso le famiglie o le comunità pagano per riottenere i propri cari quando lo Stato non riesce a garantire salvezza rapida. Questo alimenta un circolo vizioso: mancanza di protezione pubblica, pagamenti privati di riscatto, rafforzamento delle reti criminali.
Guardando all’immediato futuro, è realistico aspettarsi un aumento della pressione internazionale su Abuja per mostrare risultati operativi e risposte politiche credibili, insieme a possibili tentativi diplomatici di coordinamento con Paesi vicini e partner esterni. È plausibile un rafforzamento delle collaborazioni di intelligence e forze congiunte regionali, ma ogni intervento esterno dovrà rispettare la sovranità nigeriana per non esacerbare la narrativa nazionale contro “ingerenze”. Sul piano sociale, senza un cambio di paradigma che combini prevenzione, sviluppo e giustizia, la tendenza agli attacchi alle scuole e alle comunità resterà una minaccia ricorrente.
La tragedia umana delle famiglie in attesa e dei bambini rapiti richiede una risposta che vada oltre l’indignazione mediatica: interventi operativi immediati per il recupero e la protezione, insieme a una strategia nazionale integrata capace di affrontare radici economiche e istituzionali del fenomeno, e uno sforzo diplomatico per evitare che le narrazioni polarizzanti internazionali peggiorino il quadro.
Stefano Lovi – PhD Candidate