Se l’Islam politico occupa gli spazi dell’anatagonismo sociale anche in Italia…
Negli ultimi anni, le università italiane hanno affrontato una sfida significativa legata alla cosiddetta «integrazione antagonista», fenomeno che possiamo riassumere come l’aumento dell’influenza di movimenti estremisti all’interno delle istituzioni accademiche. Tali movimenti, storicamente associati a ideali di giustizia sociale e cambiamento progressivo, hanno assunto una connotazione islamico-popolare, se non addirittura islamista-radicale. La connessione tra ideologie islamiste radicali, rappresentate da Hamas, e le proteste studentesche ha sollevato interrogativi sulla natura di queste manifestazioni. Mentre l’impegno a favore del popolo palestinese è storicamente distinto dall’Islam radicale, l’influenza di Hamas ha introdotto una visione più radicale e religiosa della questione palestinese. Hamas è espressione della Fratellanza musulmana, un movimento islamico politico, nato in Egitto negli anni Trenta, molto variegato al proprio interno. Si va dai manager ai guerriglieri, dai grandi scrittori e accademici a politici navigati, dai professionisti agli attivisti pro-Islam in Occidente. La Fratellanza coltiva l’ideale dell’Islamizzazione dal basso, partendo dalla premessa che la civiltà occidentale sia in una fase irreversibilmente critica, per cui è necessario rendere praticabile l’”alternativa islamica”, in chiave sociale ed economica. Il movimento ha avuto buoni successi elettorali, dopo la Primavera araba, ma le sue esperienze di governo (in Egitto, in Tunisia e in Marocco, ad esempio) si sono rivelate molto deludenti e alcune volte si sono concluse in modo catastrofico (in Egitto, ad esempio, con un colpo di stato militare). Questo ha portato la Fratellanza – che gode dell’appoggio del Qatar e della Turchia – a concentrarsi sempre di più sulle questioni internazionali, a partire ovviamente dalla Palestina, e a rafforzare la propria rete in Occidente. E’ una strategia volta far integrare gli islamisti e le loro narrazioni nel sistema democratico, occupando lo spazio che la democrazia stessa garantisce alle sue controparti, specialmente alle minoranze politiche e culturali nonché ai gruppi più radicali di opposizione sociale.
Mentre lo scontro tra Israele e Hamas prosegue, le conseguenze che ne scaturiscono, non solo economiche e geopolitiche, ma anche di divisione della società civile, continuano a farsi sentire nei campus universitari Occidentali. L’ideologia dell’alternativa islamica in risposta alla presunta «crisi dell’Occidente» non si limita a costruire reti politico-sociali ed economiche internazionali, ma mira anche ad alimentare esperienze. Considerati alleati nella battaglia contro Israele da Hamas e dal potere islamista, buona parte degli studenti italiani, movimento che occupa uno spazio tradizionalmente associato alla sinistra sociale e ai movimenti giovanili, sembra sostenere la cosiddetta «resistenza palestinese», con grande soddisfazione di Hamas. Dopo la comparsa a Bologna delle tende universitarie, come avvenuto in terra USA specialmente alla Columbia University, l’agenzia «Quds News Network», considerata vicina ad Hamas, ha pubblicato un video che riprende l’accampamento, scrivendo come «gli studenti dell’Università di Bologna in Italia si uniscono al movimento studentesco globale che sostiene la Palestina e chiede il disinvestimento da Israele». L’emergere dell’integrazione antagonista nelle università rappresenta una sfida significativa per le istituzioni accademiche, nella misura in cui un’eccessiva tolleranza da parte delle autorità accademiche può essere interpretata come debolezza e segno di consapevolezza delle colpe storiche da scontare, a partire dal colonialismo fino al degrado delle periferie urbane, mentre, d’altra parte, un uso eccessivo della forza o il rifiuto di qualsiasi tipo di dialogo rischiano di legittimare le posizioni più estreme.
Ma le manifestazioni pro-Palestina, che spesso contengono frange pro-Hamas, stanno diventando sempre più comuni anche fuori dagli ambienti universitari, come a Torino durante alla manifestazione “Tutti gli occhi su Rafah”, dove i manifestanti hanno forzato i cancelli di sbarramento all’ingresso del Salone del Libro per provare a entrare. L’11 maggio, a Milano, Majed Al-Zeer, uomo chiave del mondo pro-Hamas in Europa impegnato a riportare in tempo reale cortei, sit-in e manifestazioni nelle città europee dove sventolano le bandiere palestinesi, ha commentato entusiasticamente una scena simile. Il quotidiano britannico “Times” ha riportato che i servizi di sicurezza tedeschi considerano Al-Zeer il leader europeo di Hamas, con contatti fino ai vertici dell’organizzazione e il compito di organizzare le attività del gruppo in diversi Paesi europei.
Il movimento anti-Israele che sta emergendo è forte sia negli Stati Uniti che in Europa. Questo non è solo merito della fantasia degli attivisti, spesso descritti come «studenti innocui», ma soprattutto dei militanti di centri sociali e gruppi islamo-gauchisti, una sinergia tra fazioni anarco-insurrezionaliste e islamiste militanti. Dalla Columbia a Roma, il movimento grida ovunque il famigerato slogan «From the river to the sea, Palestine will be free». Negli Stati Uniti, il gruppo “Students for Justice in Palestine” (Sjp) ha esplicitamente appoggiato le azioni di Hamas e i suoi attacchi contro Israele e i civili, mobilitando per «smantellare il sionismo» nei campus universitari.
Questi movimenti di protesta hanno dimostrato di poter avere un peso rilevante nel dibattito nazionale del contesto in cui operano: negli Stati Uniti, si è recentemente verificato il blocco di un invio di armi ad Israele per la prima volta dal 7 ottobre. Il Consiglio per la sicurezza nazionale americana ha precisato che la politica di sostegno ad Israele non cambia, ma questa azione rappresenta un segnale significativo: Joe Biden, sotto pressione delle proteste contro Israele nelle principali università americane mentre si avvicinano le elezioni di novembre, sta cercando di far capire che gli USA continueranno a fornire assistenza alla sicurezza di Israele, ma potrebbero non più sostenere l’invio di armi per operazioni militari a Rafah.
Lovi Stefano – PhD Student
Coordinamento a cura di Ciro Sbailò
Università degli Studi Internazionali di Roma – UNINT