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Oltre la Guerra dei 12 giorni. In Iran il nazionalismo sopravvive e il regime si militarizza

All’alba del 13 giugno 2025, Israele ha dato avvio a una vasta offensiva aerea contro oltre cento obiettivi in territorio iraniano, compresi i siti nucleari di Fordow, Natanz e Isfahan, in quella che è stata definita l’operazione Rising Lion. Nove giorni dopo, il 22 giugno, è seguita l’operazione Midnight Hammer, condotta dagli Stati Uniti: il primo attacco diretto su suolo persiano da parte di Washington, con bombardieri stealth B-2, missili Tomahawk e bombe anti-bunker GBU‑57, nel tentativo dichiarato di “degradare in modo irreversibile” le capacità nucleari della Repubblica Islamica.

All’alba del 13 giugno 2025, Israele ha dato avvio a una vasta offensiva aerea contro oltre cento obiettivi in territorio iraniano, compresi i siti nucleari di Fordow, Natanz e Isfahan, in quella che è stata definita l’operazione Rising Lion. Nove giorni dopo, il 22 giugno, è seguita l’operazione Midnight Hammer, condotta dagli Stati Uniti: il primo attacco diretto su suolo persiano da parte di Washington, con bombardieri stealth B-2, missili Tomahawk e bombe anti-bunker GBU57, nel tentativo dichiarato di “degradare in modo irreversibile” le capacità nucleari della Repubblica Islamica.

Nonostante le dichiarazioni trionfalistiche provenienti da Tel Aviv e Washington, secondo le quali l’Iran sarebbe stato riportato indietro di anni nel proprio programma nucleare, emergono già dubbi sostanziali: fonti europee e internazionali, nonché rapporti ufficiosi dell’AIEA, indicano che circa 400 kg di uranio arricchito al 60 % sarebbero stati trasferiti in sicurezza prima dei bombardamenti, preservando una parte non trascurabile del potenziale strategico iraniano.

Il cessate il fuoco sventolato da Donald Trump, il 24 giugno, ha posto formalmente fine alla cosiddetta Guerra dei dodici giorni. Ma più dei risultati militari, sono le conseguenze interne e simboliche a definire l’eredità della guerra. La Repubblica Islamica ne esce scossa, lacerata e in fase di ridefinizione. L’Iran, invece – come entità storica, culturale e nazionale – mostra una sorprendente coesione: sopravvive, reagisce, si reinventa. E lo fa attraverso un nazionalismo che si sgancia dalla teocrazia e si radica nella memoria lunga di un’identità millenaria.

Il tramonto simbolico del regime: un leader nascosto, una società viva

La prolungata assenza del leader supremo Ali Khamenei, rimasto nascosto in un bunker per timore di un assassinio mirato, ha offerto al mondo un’immagine inedita: una Repubblica Islamica acefala nel momento più critico della sua storia recente. Quando riapparirà, troverà un Paese ferito ma non domato. Il suo progetto politico – assicurare la sopravvivenza del sistema attraverso l’arma nucleare – si è rivelato fallace: non ha protetto, ma esposto l’Iran.

Il malcontento è diffuso anche tra i ranghi del potere. Secondo fonti interne, alcuni esponenti del vecchio establishment e settori del clero di Qom avrebbero sollecitato un cambio di leadership. Non è azzardato parlare apertamente di transizione imminente e di un Khamenei destinato a essere l’ultima Guida Suprema “forte” della Repubblica Islamica.

Ma mentre il potere vacilla, la società iraniana si ricompatta. In assenza di direttive dall’alto, i cittadini si sono auto-organizzati: accoglienza per gli sfollati, distribuzione solidale di beni di prima necessità, supporto reciproco. È un patriottismo senza partito, che non celebra il regime ma difende l’Iran, in continuità con un senso di identità che precede la rivoluzione del 1979. Il riferimento implicito è a quel programma nucleare avviato sotto lo Scià, quando l’atomica rappresentava una bandiera di modernizzazione e sovranità tecnologica.

In questo contesto, il tentativo del regime di rilanciare la solidarietà della Ummah come reazione simbolica all’aggressione esterna appare anacronistico: già in crisi da tempo, la coesione pan-islamica ha lasciato il posto a una pluralità di nazionalismi in conflitto o in silenzio strategico.

La repubblica dei generali: dall’IRGC al controllo sociale

Se il carisma religioso si affievolisce, la macchina securitaria si rafforza. I Guardiani della Rivoluzione (IRGC) assumono oggi una funzione centrale: proteggere il sistema non solo da minacce esterne, ma anche e soprattutto dal dissenso interno. Fonti iraniane parlano di 705 arresti politici in poche settimane, esecuzioni per “spionaggio” e repressione sistematica nelle aree curde e baluche. Le scuole sono presidiate, le città militarizzate, la rete paramilitare del Basij riattivata per controllare la popolazione.

A rafforzare questa logica difensiva, il regime ha rilanciato anche la minaccia propagandistica del MEK (Mujahedin-e-Khalq), movimento di opposizione in esilio da decenni. Nonostante il limitato radicamento interno, il MEK viene oggi presentato come longa manus delle intelligence straniere e responsabile di presunti sabotaggi e campagne destabilizzanti. La sua centralità nel discorso ufficiale rivela più che altro una strategia di legittimazione del controllo: evocare un nemico esterno per giustificare la compressione dello spazio politico interno, alimentando il clima di emergenza.

Questo passaggio segna una svolta: dalla Repubblica ideologica alla Repubblica dei generali. La rivoluzione, un tempo fondata su martiri e ulema, si appoggia ora su missili e checkpoint.

Un nazionalismo popolare contro il potere: tra solidarietà e frustrazione

Nel vuoto lasciato dal discorso ufficiale, cresce un nazionalismo alternativo, laico, civico, che si esprime non nella difesa del regime, ma nella resilienza della società. Le proteste mancano non per fedeltà al potere, ma per mancanza di alternative organizzate. L’opposizione in esilio è disunita, e all’interno del Paese domina il timore che un cambio forzato porti più caos che liberazione.

Tuttavia, la coscienza nazionale è viva. Il popolo iraniano ha distinto tra il “Paese” e la “Repubblica Islamica”. Ha scelto di resistere per sé stesso, non per l’Ayatollah. La storia, la lingua, la cultura e persino il programma nucleare sono vissuti come patrimonio identitario, non ideologico. In questo quadro, la sopravvivenza del nucleare – anche a costo della rottura con l’AIEA e il Trattato di Non Proliferazione (NPT) – potrebbe rappresentare un’estrema rivendicazione di sovranità.

Le crepe dell’Imamato: verso una “nuova Repubblica Islamica”?

La guerra dei 12 giorni ha colpito duramente l’Iran, ma ha fallito nel demolirlo. Israele e Stati Uniti hanno ottenuto una vittoria tattica; ma la Nazione iraniana ha rivelato una resilienza profonda, nonostante la repressione e l’isolamento. È ora evidente che la Repubblica Islamica non può più fondarsi sul carisma religioso, sulla narrazione della resistenza o sulla promessa di un futuro nucleare.

Se sopravvive – e potrebbe farlo – sarà un altro regime: più securitario, meno teologico, più chiuso, ma anche più fragile di quanto mai prima. Intanto, nel cuore del popolo, si affaccia un’idea diversa di Iran: uno Stato post-ideologico, legato alla sua storia più che alla sua Rivoluzione.

La vera eredità del conflitto non è nei silos distrutti, ma nelle crepe aperte nel mito dell’Imamato. L’Iran resta. Ma la Repubblica Islamica non sarà più la stessa. E proprio in questa transizione instabile, dove le promesse rivoluzionarie cedono il passo al nuovo giro di vite dei Pasdaran, si intravede il rischio di una deriva entropica: quel progressivo sfilacciamento dei regimi autoritari che rappresenta oggi una delle vere emergenze geopolitiche del XXI secolo.

 

Alessio Zattolo, PhD Student

Coordinamento a cura di Ciro Sbailò

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