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Il riconoscimento di uno Stato palestinese: una sconfitta per Hamas, non un premio

In questo 2024, al suo quinto mese, il mondo osserva due eventi storici che hanno plasmato il destino del Medio Oriente. Il 14 maggio, infatti, Israele celebra il suo 76° Giorno dell’Indipendenza dal 1948, quando Ben Gurion, leader dell’Agenzia ebraica, proclamò la nascita dello Stato d’Israele, diventandone poi il primo premier della storia. Il successivo 15 maggio, invece, si ricorderà la Nakba, l’esodo forzato di circa 750 mila palestinesi durante la prima guerra arabo-israeliana, al termine del mandato britannico sulla Palestina nel 1948. Due anniversari consecutivi, anche se di segno diametralmente opposto: uno di festa, l’altro un po’ meno. Due facce d’una stessa medaglia, simboli di gioia e dolore, di vittoria e perdita, che continuano a segnare indissolubilmente la storia della regione.

In questo contesto, con l’escalation di violenza del conflitto nella Striscia di Gaza, un aspetto assai trascurato è l’idea che il riconoscimento di uno Stato di Palestina da parte dell’Occidente non rappresenterebbe un premio per il terrorismo di Hamas, ma piuttosto una sconfitta. Tale prospettiva, sebbene apparentemente controintuitiva, è supportata da alcuni  punti chiave.

Primo. Hamas, fondata nel 1987 come emanazione della Fratellanza musulmana egiziana, ha da sempre rifiutato il diritto all’esistenza d’Israele, perseguendo l’obiettivo finale di liberare i Territori palestinesi dall’occupazione israeliana e instaurare uno Stato islamico retto unicamente dalla Sharia. La creazione di uno Stato palestinese accanto allo Stato ebraico infliggerebbe un duro colpo ideologico ad Hamas, mettendo in discussione le sue ideologie estremiste e costringendola a confrontarsi con la realtà della coesistenza, a detrimento della legittimità della sua causa.

Secondo. La storia elettorale di Hamas nella Striscia di Gaza è complessa e sfaccettata. La vittoria alle legislative del 2006 è stata il risultato di diversi fattori. In un clima di generale disillusione per il processo di pace, Hamas ha guadagnato consensi svolgendo un ruolo chiave nella fornitura di servizi sociali alla popolazione nei duri anni dell’Intifada, seminando radicalismo. A ciò si aggiunge la crescente insoddisfazione per il governo dell’Autorità Palestinese in Cisgiordania da parte di Fatah – un ramo essenzialmente secolare dell’Oganizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) –  percepita come corrotta ed inefficace. Infine, Hamas si è assicurata la maggioranza dei seggi in Parlamento, pur in assenza della maggioranza assoluta dei voti, evidentemente grazie al sistema della rappresentanza proporzionale. Equiparare, quindi, l’esito di quelle elezioni, alle preferenze attuali dei gazawi può essere fuorviante. Lo dimostra un recente sondaggio del Palestinian Center for Policy and Survey Research (PCPSR), che evidenzia i potenziali cambiamenti del sentimento politico dominante a Gaza.

Terzo. La resistenza palestinese, lungi dall’essere monolitica, è storicamente un mosaico di fazioni con ideologie e metodologie diverse. Durante il periodo di Yasser Arafat, le divisioni all’interno dell’OLP hanno avuto un ruolo significativo nel fallimento degli Accordi di Oslo del 1993, destinati a risolvere pacificamente il conflitto israelo-palestinese. Il processo è tramontato nel 2000, dopo lo smacco del vertice di Camp David e l’inizio della seconda Intifada. In effetti,  presupporre che oggi Hamas parli e agisca sempre a nome di tutto il popolo palestinese, semplicemente perché ha vinto un’elezione 17 anni fa – l’unica, con il 44% dei voti contro il 41% di Fatah – pare una generalizzazione a dir poco anacronistica.

Quarto. La brutalità interna di Hamas. Secondo un rapporto di Amnesty International, durante l’offensiva militare israeliana di luglio e agosto 2014 le forze fondamentaliste hanno condotto una brutale campagna di rapimenti, atti di tortura ed esecuzioni extragiudiziali contro palestinesi. Se, entro la fine di maggio, il gruppo informale guidato dal premier spagnolo Pedro Sanchez riuscisse a ottenere il riconoscimento della Palestina, in Europa e in seno al Consiglio di sicurezza dell’ONU, all’interno di un più ampio processo di pacificazione in Medio Oriente, la soluzione a due Stati potrebbe diventare un mezzo per porre fine a questo tipo di violenze liberticide. Ciò è particolarmente vero perché, nel governare Gaza, Hamas ha dimenticato la democrazia, ha fatto ricorso all’autoritarismo e alla corruzione e ha represso l’organizzazione politica e il dissenso

Quinto. Una soluzione che porti a una pace permanente tra Israele e Palestina. Il Segretario Generale dell’ONU Antonio Guterres, che non ha risparmiato critiche all’azione militare iniziata da Tel Aviv dopo gli attacchi dei miliziani di Hamas del 7 ottobre, ha ribadito che “niente può giustificare l’uccisione deliberata, il ferimento e il rapimento di civili né la punizione collettiva del popolo palestinese”. Questa affermazione implica, dunque, che la creazione di uno Stato palestinese, piuttosto che premiare Hamas, servirebbe a garantire una volta per tutte l’impegno totale della comunità internazionale affinché si giunga a un cessate il fuoco stabile e duraturo.

Tale scenario consentirebbe di affievolire i venti di protesta che animano le manifestazioni studentesche anti-israeliane nelle università occidentali, contribuendo a creare un clima favorevole alla risoluzione del conflitto.

Alessio Zattolo

PhD Student

Global Studies & Innovation



Coordinamento a cura di Ciro Sbailò

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