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Sudan, un anno di guerra civile: si aggrava la crisi umanitaria e politica. Quali ripercussioni sul bacino del Mediterraneo ?

Bilad al Sudan – il “Paese dei Neri” – è il nome arabo di una nazione che solo pochi anni fa brillava di promesse di stabilità a tratti faticose. Lo scorso lunedì 15 aprile, è ricaduto il primo anniversario di un conflitto fratricida che sta dilaniando il Paese, con un bilancio drammatico. Almeno 15 mila morti, otto milioni di profughi, 25 milioni di persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria per sopravvivere, una carestia imminente e crimini di guerra commessi da tutte le parti del conflitto. Nella distrazione quasi totale dei media e del pubblico.

 

L’escalation dei combattimenti è stata innescata, il 15 aprile del 2023,  dalla resa dei conti tra i due generali che hanno ordito il putsch del 25 ottobre 2021 ai danni dell’esecutivo civile del premier Abdallah Hamdok – economista di formazione anglosassone. È stata un’ulteriore sconfitta per le speranze di democrazia e per le rivendicazioni seguite al rovesciamento del trentennale e sanguinario regime islamista, l’11’aprile 2019. E così due anniversari si mescolano. Attualmente, infatti, nel Paese africano è in corso una lotta accanita e devastante tra le due principali forze di sicurezza che hanno governato insieme per anni, dopo la deposizione del dittatore Omar al-Bashir, al potere dal 1989. 

 

Il centro del conflitto è Khartoum, dove le Forze Armate Sudanesi (SAF) rimaste fedeli ad Abdel Fattah al-Burhan – capo della giunta militare e Presidente de facto del Paese – e le Rapid Support Forces (RSF) – un tempo milizia Janjaweed – guidate dal numero due del Consiglio di transizione, il generale Mohamed Hamdan “Hemedti” Dagalo, si contendono il controllo della capitale. Sono stati molteplici i tentativi di «tregua» concordati tra l’esercito regolare e i paramilitari, oltre alle richieste internazionali di un immediato «cessate il fuoco». Ciononostante, è in atto “un’ulteriore escalation di violenza che potrebbe portare alcune regioni del Sudan alla carestia” mentre “l’emergenza potrebbe estendersi ai Paesi africani limitrofi a meno che i combattimenti non finiscano”. È il nuovo monito lanciato a Parigi dalle Nazioni Unite, lo scorso venerdì 12 aprile, ad una conferenza internazionale dei donatori per discutere di come migliorare la fornitura di aiuti.

 

Una guerra nel cuore dello Stato e del potere. Che da Khartoum si è velocemente estesa agli Stati occidentali del Darfur, teatro dal 2003 di un sanguinoso conflitto che ha dilaniato in più di un decennio la popolazione locale, nonché regione di origine di RSF e del suo leader dove sono accusati per crimini di guerra dalla Corte penale internazionale dell’Aia. Dopo un anno di scontri, il Sudan è diviso a metà, nessuna delle due parti sembra avere la minima intenzione di smettere di combattere, ma neanche la capacità di vincere sull’avversario. 

 

Con il rischio di un aumento dell’instabilità nel vicino Sud Sudan – indipendente dal 9 luglio 2011 – mai davvero pacificato anche dopo la fine di quasi ventidue anni di guerra civile tra le regioni settentrionali e meridionali del Paese, rispettivamente a maggioranza arabo-musulmana e subsahariana-cristiana. Le operazioni militari hanno avuto un impatto anche sull’export di petrolio dal circondario sudsudanese, che dal greggio ricava l’80% del PIL e il 98% del budget operativo dello Stato. Lo scorso febbraio, il danneggiamento di un oleodotto controllato da RSF negli Stati del Nilo Bianco – al confine che li separa dal territorio sotto il controllo di SAF – ha quasi bloccato la sola via di commercializzazione del greggio estratto a Juba e diretto all’hub commerciale di Port Sudan, sul Mar Rosso. Con importantissime conseguenze economiche anche per Khartoum, che dal passaggio del greggio ricava ricche royalty. 

 

Era solo una questione di tempo che il conflitto in Sudan finisse per costituire una diretta aggravante della già grave instabilità del Sud Sudan, e non solo. Secondo il Sudan War Monitoring, gran parte dei proventi del petrolio sono sempre serviti per finanziare “progetti speciali” nell’inner circle del presidente, Salva Kiir – accusato anche di corruzione e di appropriazione indebita. La drastica riduzione dei dividendi potrebbe, dunque, portare al diffondersi di un malcontento che rischia di sfociare in proteste, magari mascherate da azioni per sottolineare i gravi e numerosi problemi del Paese africano. 

 

Nel quadro di una distrazione generale dei media internazionali, la crisi sudanese persiste. Nonostante l’assenza di immagini provenienti da Khartum o dal Darfur, la vicinanza è più reale di quanto si possa percepire. Situato tra il Mar Rosso e il Sahel, tra il Maghreb e il Corno d’Africa, regioni di grande importanza strategica per l’intero bacino del Mediterraneo – quindi anche per l’Italia – e già altamente destabilizzate, il Sudan merita una maggiore attenzione di quanto non abbia al momento.

 

L’importanza del Paese è accentuata dalla recente firma per il rafforzamento del partenariato strategico UE-Egitto, che il 17 marzo scorso ha riunito al Cairo il Presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, la Premier Italiana, Giorgia Meloni, insieme alla Presidente della Commissione europea, Ursula von der  Leyen, al Presidente della Repubblica di Cipro, Nikos Christodoulidis, e ai Primi Ministri di Belgio, Alexander De Croo, Grecia, Kyriakos Mitsotakis, e Austria Karl Nehammer. L’obiettivo principale dell’incontro è stato il finanziamento di politiche mirate volte a contenere i flussi migratori irregolari.

 

Evidentemente, lo scontro tra signori della guerra, in quella che rimane la terza nazione più popolosa dell’Africa, finisce per costituire una diretta aggravante sulla già precaria stagione geopolitica del Mediterraneo allargato. La guerra in Sudan è un problema per la stabilità del vicino Egitto,  che accoglie quasi un terzo degli sfollati sudanesi. Il più grande Paese del Maghreb è alle prese con alti tassi di disoccupazione, inflazione e un debito pubblico in crescita. Il quadro socioeconomico egiziano è aggravato dalla perenne spaccatura in Libia, dalla recrudescenza dell’estremismo islamista degli Houthi yemeniti nel Mar Rosso e dalla crescente crisi umanitaria a Gaza. Con l’ulteriore incognita che migliaia di sfollati palestinesi rifugiati a Sud della Striscia sfondino i confini del Sinai sotto il peso dell’assedio delle Forze di Difesa Israeliane (IDF)

 

Inevitabilmente, sul fronte delle conseguenze migratorie e umanitarie, l’UE assiste all’evolversi dello scenario geopolitico con la fibrillazione con cui si guarda ad una bomba ad orologeria pronta a deflagrare, con il rischio annesso che centinaia di migliaia di migranti si riversino lungo le rotte che si proiettano verso il Mediterraneo. Il Sudan, infatti, rappresenta uno snodo centrale delle migrazioni. Khartoum, è tra i principali hub dei flussi originati dal Corno d’Africa e diretti in Europa prevalentemente attraverso la Libia e l’Egitto.Non sono solo numeri. È un intero Paese, oltre l’orlo del collasso dopo un anno di guerra. Una guerra che, tranne nei primi giorni quando c’erano da “estrarre” i cittadini stranieri, è poi uscita quasi completamente dai nostri giornali, finendo nel dimenticatoio.

Coordinamento a cura di Ciro Sbailò

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