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Amphibia mediterranea: perché la crisi del Mar Rosso riguarda l’Europa.

Il controllo militare e commerciale dei mari attraverso le flotte navali si chiama “Talassocrazia”. Un tempo praticato da Atene, tale dominio resta cruciale per la sicurezza dei traffici nel Mediterraneo Allargato.

Mentre proseguono gli scontri armati nella Striscia di Gaza – da cui Hamas ha lanciato la sua offensiva contro lo Stato ebraico il 7 ottobre scorso – insieme a razzi e ai bombardamenti per rispondere agli attacchi di Hezbollah nel sud del Libano, un terzo fronte della crisi in Medio Oriente si è aperto di fatto nel Mar Rosso. Nonostante il lancio di un’operazione multinazionale di vigilanza a guida USA, con il coinvolgimento dei partner dell’area euro-atlantica, gli Houthi dello Yemen, sostenuti dall’Iran, minacciano di proseguire gli attacchi contro le navi commerciali che transitano in uno dei corridoi talassocratici indispensabili – insieme al Canale di Suez – per collegare l’Asia con l’Europa. Nelle ultime ore sono finite nel mirino navi cargo ritenute in qualche modo collegate a Tel Aviv, alle quali si aggiungono i raid con missili e droni di fabbricazione iraniana contro la città israeliana di Eilat, intercettati dalla Quinta Flotta della Marina americana. La gravità degli attacchi del governo filo-iraniano di Sana’a, guidato dal leader Abdel Malek Houthi, che ha dichiarato la sua ferma posizione nel “sostenere la causa palestinese” fino alla revoca dell’assedio su Gaza, ha spinto diverse compagnie di navigazione a ordinare alle proprie navi di non entrare nello stretto di Bab el-Mandab finché la situazione della sicurezza non sarà risolta. Ma chi sono gli Houthi e perché stanno attaccando le imbarcazioni nel Mar Rosso?

Noti anche come Ansar Allah o “Partigiani di Dio”, da più parti definiti “ribelli” perché sostenuti da Teheran, gli Houthi rappresentano la principale forza militare e di governo dello Yemen. Dal 2015 il Paese è martoriato da una sanguinosa guerra civile – arrivata a una tregua solo l’anno scorso – prodotto di una fallita integrazione nazionale, quella del 1990, nonché del deragliamento della transizione istituzionale seguita alla Primavera araba yemenita, che ha determinato la fine del longevo e corrotto regime di Ali Abdullah Saleh, nel 2011. Negli ultimi anni si è parlato di attacchi da parte del gruppo armato – battezzato con il nome dal suo leader fondatore, ussein al-outhi, ucciso dalle forze statali yemenite nel 2004 – alle piattaforme petrolifere dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, nel quadro di una proxy war fra i migliori alleati di Washington da una parte e i Pasdaran iraniani dall’altra. Dal 2014, il movimento-milizia della “periferia” sciita (di rito zaydita) in guerra contro il governo centrale – che rappresenta la maggioranza sunnita della popolazione – controlla di fatto la capitale Sana’a con tutti i ministeri e la Banca centrale, oltre a vaste regioni del nord-ovest. Al gruppo politico e militare sostenuto dall’Iran (sciita duodecimano) si contrappongono le forze regolari yemenite sostenute dall’Arabia saudita, nonché le forze secessioniste appoggiate dagli Emirati Arabi Uniti, entrate in conflitto nelle regioni centro-meridionali, compreso il porto strategico di Aden. L’interesse saudi-emiratino, più che alle questioni settarie (“attivate” strumentalmente) è legato alle variabili geoeconomiche e all’influenza delle petrol-monarchie (sunnite) nell’estremità Sud della Penisola arabica in un avveniristico scenario post-oil. Non a caso, lo Stretto di Bab el-Mandab, che separa lo Yemen dall’Africa orientale e conduce a nord verso il Mar Rosso – al centro del nuovo piano di transizione energetica globale (leggi COP28), da cui passano i carichi marittimi da e per il Canale di Suez, è uno dei più cruciali “choke points” delle rotte energetiche e commerciali internazionali insieme agli Stretti di Hormuz e Malacca. 

Nonostante l’ampio ricorso a una narrativa antisemita nelle dichiarazioni pubbliche dei suoi leader, i quali sostengono esplicitamente la fine dell’America e di Israele, la condanna degli ebrei e il trionfo dell’Islam in linea con l’Iran e l’Asse della Resistenza, va notato che le circa 1.000 miglia che separano lo Yemen dalla roccaforte mediorientale di democrazia e dei valori dell’Occidente riducono la minaccia Houthi a una questione prevalentemente ideologica. In realtà, la riflessione critica da parte dei leader e degli analisti internazionali individua la concreta portata del rischio nelle acque dello Yemen post-Primavera Araba, con particolare attenzione alle sfide cruciali nello scacchiere talassocratico del Mediterraneo Allargato, soprattutto riguardo alla sicurezza energetica e commerciale delle democrazie occidentali e delle ricche monarchie del Golfo. Contestualmente, un comandante delle Guardie della Rivoluzione iraniana citato dai media iraniani ha affermato che il Mediterraneo potrebbe essere “chiuso” se gli Stati Uniti e i loro alleati continueranno a commettere “crimini” a Gaza, senza spiegare come tale chiusura potrebbe realizzarsi.

Già nei giorni scorsi i prezzi del petrolio e del gas naturale hanno fatto registrare un aumento, in parte dovuto al nervosismo dei mercati per gli attacchi degli Houthi. Alcune compagnie hanno già modificato la rotta attraverso il Capo di Buona Speranza, prolungando il percorso del 40%, spendendo fino al 12% in più in termini di trasporto e assicurazione. Gli assalti alle navi collegate a Israele ha il potenziale per migliorare la posizione dei “ribelli” nel Mondo arabo, dove esiste un sostanziale “sostegno” alla causa palestinese. Per questo motivo, l’assertività degli Houthi avvantaggerebbe il movimento anche all’interno dei propri confini nazionali: le sue azioni sembrano aver raccolto il sostegno dei mustad’afin, gli “oppressi” dello Yemen.

E così, nei giorni scorsi il Pentagono ha annunciato l’avvio dell’Operazione Prosperity Guardian, una nuova task force che verterà essenzialmente su due obiettivi: proteggere le navi mercantili in transito nel Mar Rosso, scortandole, e neutralizzare l’insorgere della minaccia. Oltre 20 Paesi – tra i quali Gran Bretagna, Francia, Paesi Bassi, Spagna, Norvegia, Bahrain, Canada, Seychelles e Grecia – hanno aderito alla coalizione sostenuta dall’Unione Europea, come ha dichiarato il capo della politica estera dell’UE, Joseph Borrell. In particolare, l’Italia, per dirla con le parole del ministro della Difesa Guido Crosetto, “farà la sua parte, insieme alla comunità internazionale” in contrasto alla minaccia terroristica e di destabilizzazione degli Houthi, “per tutelare la prosperità del commercio e garantire la libertà di navigazione e il diritto internazionale”. Il governo ha deciso di inviare nel Mar Rosso la Fremm (Fregata europea multi-missione) Virginio Fasan, già presente in Medio Oriente, che in prima istanza va a rafforzare la missione europea Atalanta, già autorizzata in Parlamento. 

Rimangono ancora da definire le modalità di partecipazione delle navi europee, insieme alle regole di ingaggio della coalizione USA e ai rischi di un allargamento del conflitto in corso nella Striscia di Gaza se Washington dovesse attaccare le basi dei “ribelli” in territorio yemenita. Sembra imprescindibile, tuttavia,  per  un’ Europa che voglia esprimere la sua sovranità e la sua funzione geopolitica, richiamare la necessità di disporre e applicare lo strumento militare in linea con le proiezioni economiche e gli obiettivi comuni di politica estera e di sicurezza.. La crisi del Mar Rosso diventa emblematica.

Coordinamento a cura di Ciro Sbailò

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