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Giordania: il difficile equilibrio tra stabilità regionale e caos interno

Lo scorso 5 luglio una folla di manifestanti ha marciato per il centro di Amman, sventolando cartelli e bandiere a sostegno della Palestina. Jason Burke, inviato del The Guardian riporta che centinaia di manifestanti hanno attraversato Rainbow street, un tempo meta preferita dei turisti, all’urlo di “Bruceremo Israele! Vogliamo la testa di Netanyahu!”. Dall’attacco in Israele del 7 ottobre, e dalla successiva invasione di Gaza, la Giordania sta attraversando una delle sue sfide più difficili.

Lo scorso 5 luglio una folla di manifestanti ha marciato per il centro di Amman, sventolando cartelli e bandiere a sostegno della Palestina.
Jason Burke, inviato del The Guardian riporta che centinaia di manifestanti hanno attraversato Rainbow street, un tempo meta preferita dei turisti, all’urlo di “Bruceremo Israele! Vogliamo la testa di Netanyahu!”.
Dall’attacco in Israele del 7 ottobre, e dalla successiva invasione di Gaza, la Giordania sta attraversando una delle sue sfide più difficili.
La guerra a Gaza ha segnato l’inizio di una serie di proteste e manifestazioni, spinte dall’indignazione per le vittime palestinesi, che stanno mettendo a dura prova gli equilibri del Paese.
La Giordania, infatti, deve barcamenarsi tra una popolazione fortemente legata ai palestinesi, un contesto politico-economico complesso e un ruolo strategico primario, condiviso con l’Egitto, nella gestione della crisi regionale.

 

Popolazione ed equilibrio interno

La Giordania ha una popolazione di circa 11 milioni di abitanti prevalentemente araba e, secondo i dati UNRWA 2023, ospita oltre 2 milioni di palestinesi registrati come rifugiati, ma questo dato non è del tutto esatto in quanto la presenza di diversi campi profughi rende difficile una stima precisa. La diaspora palestinese in Giordania è iniziata con la guerra israelo-palestinese del 1948 ed è proseguita con la “guerra dei giorni”, del 1967, e l’occupazione dei territori della Cisgiordania da parte di Israele.
La componente palestinese ha quindi una forte influenza sull’equilibrio interno.
In questi mesi, la monarchia costituzionale, guidata dal Re Abdullah II, ha criticato la risposta israeliana agli attacchi di Hamas e ha insistito sulla necessità di porre fine alla guerra e alle pressioni su Gaza. Ayman Safadi, ministro degli esteri giordano, e la regina consorte Rania al-Yasin – quest’ultima di origini palestinesi – hanno pubblicamente denunciato la campagna militare di Israele. In linea con queste posizioni, la Giordania ha anche sostenuto l’invio di aiuti umanitari a Gaza.
Tuttavia, per la popolazione non è abbastanza.
La linea seguita dal Governo per la politica estera sta favorendo il diffondersi di un generale sentimento di insoddisfazione.
Il legame con gli Stati Uniti e la decisione di non interrompere le relazioni diplomatiche con Israele hanno, infatti, alimentato le tensioni. La Giordania è, del resto, mossa dal fine di mantenere la pace a tutti i costi, non senza contraddizioni. Sul piano estero mantiene un atteggiamento aperto e di dialogo con i vicini, sul piano interno il Governo ha spesso dispiegato le forze dell’ordine per reprimere i dissensi, oltre ad aver proibito le proteste nelle zone di confine.
Secondo Human Right Watch sarebbero infatti centinaia le persone arrestate dall’inizio della guerra. Le autorità hanno inoltre utilizzato a loro vantaggio una legge approvata dal Parlamento nell’agosto del 2023 che prevede condanne per la pubblicazione sui social media di contenuti considerati contro la morale e intenti ad alimentare conflitti nella società.
La legge è stata particolarmente criticata dagli esperti in quanto mina la libertà di espressione e introduce una nuova autorità con il compito di controllare i social media.
Il pugno di forza è spinto dal tentativo delle istituzioni giordane di controllare il dissenso ed evitare di esserne risucchiate.
Uno dei principali punti di rottura tra il Governo e la popolazione è avvenuto ad aprile, quando la Giordania ha collaborato all’abbattimento di 170 droni, 120 missili balistici, e circa 30 missili da crociera, lanciati dall’Iran contro Israele. L’intervento ha suscitato numerose critiche. Il Governo ha risposto alle polemiche specificando che l’intervento è avvenuto esclusivamente per preservare il proprio spazio aereo e non per difendere Israele. Tuttavia, sui social media hanno iniziato a circolare fotomontaggi raffiguranti il Re Abdullah II con la divisa dell’esercito israeliano allargando la distanza emotiva tra il Re e la popolazione giordana.

 

Gli alti e bassi con Israele

Il mantenimento delle relazioni con Israele in ogni caso non è sinonimo di distensione e buoni rapporti.
Dalla firma del trattato di pace israelo-palestinese, conosciuto come Trattato Wadi Araba, avvenuta nel 1994, il rapporto tra i due Paesi è stato altalenante. Con l’accordo, la Giordania riconosceva Israele e si normalizzavano le relazioni tra Tel Aviv e Amman.
In realtà, l’incompatibilità tra i due Paesi è emersa da lì a poco e si è acutizzata dopo l’insediamento di Benjamin Netanyahu. Tra le principali cause c’erano proprio le scelte del premier Netanyahu che, dal 2009 in avanti, avrebbero portato a un graduale logoramento, fino ad arrivare alla crisi diplomatica del 2019.
Con l’insediamento, nel 2021, del governo Bennett-Lapid c’è stata un’inversione di rotta tanto da favorire la firma di una dichiarazione di intenti per un nuovo accordo energetico, confermato l’anno successivo con la firma di un Memorandum d’intesa. L’accordo impegnava Israele a fornire alla Giordania circa 200 milioni di metri cubi d’acqua in cambio di 600 megawatt di capacità produttiva solare. Tuttavia il fallimento del Governo Bennet-Lapid, e lo scioglimento della Knesset avvenuta nel 2022, ha portato al potere nuovamente Benjamin Netanyahu che si è aggiudicato le elezioni dello stesso anno, facendo precipitare nuovamente i rapporti tra i due Paesi.

 

La dipendenza dagli Stati Uniti

Per quanto riguarda il rapporto con gli Stati Uniti, nonostante la questione palestinese abbia chiaramente dominato, negli ultimi mesi, i colloqui tra il re Abdallah II e Biden, non ha incrinato la relazione tra i due.
Il rapporto con Washington è infatti per Amman strategicamente fondamentale.
La Giordania è un Paese piccolo e dipendente dal sostegno economico-militare che riceve dagli Stati Uniti.
Secondo il report “Jordan: Background and U.S. Relations” pubblicato a inizio luglio dal Congressional Research Center (CRS), l’assistenza statunitense alla Giordania rappresenta oltre il 40% del totale degli aiuti annuali ricevuti dal Regno hashemita. Gli aiuti annuali inviati alla Giordania negli ultimi 15 anni sono triplicati e il memorandum d’intesa, firmato nel 2022, tra quest’ultima e gli Stati Uniti, impegna l’amministrazione statunitense all’invio di 1,45 miliardi di dollari in aiuti economici e militari annuali alla Giordania per il periodo 2023-2029. Il legame con gli Stati Uniti è un altro tassello che lega la Giordania a Israele obbligando la prima a mantenere un approccio duro verso gli attacchi contro Gaza ma senza porsi in modo apertamente ostile nei confronti del suo vicino.

 

Ruolo nella crisi israelo-palestinese

La Giordania affianca dunque l’Egitto nel suo ruolo di arbitro e mediatore.
I due Paesi sono infatti gli attori regionali più stabili e dai quali probabilmente dipende il futuro del Medio Oriente. Dall’inizio della crisi il Paese ha preso parte attivamente al dialogo tra le forze coinvolte per raggiungere un accordo e porre fine alla guerra.
L’intercettazione della Giordania dei missili si inserisce proprio in questo contesto. L’obiettivo sarebbe infatti quello di partecipare in prima linea, con la spinta di Francia, Inghilterra e Stati Uniti, alla costruzione di un’alleanza filo-occidentale in Medio Oriente e in chiave anti-iraniana. L’Iran rappresenta un’altra preoccupazione del re in quanto sta sfruttando l’instabilità della regione per aumentare l’influenza sciita nei Paesi vicini. Sono infatti diverse le milizie sciite, in Iraq e Siria, stanziate ai confini orientali con l’obiettivo di estendere la propria presenza nella regione
Il re Abdullah II ha ripetutamente sottolineato la necessità di porre fine alla guerra e di investire nella stabilità regionale. Egli teme che il peggioramento della situazione a Gaza possa degenerare in un’escalation regionale.

 

Crisi economica e calo del turismo: un equilibrio instabile?

La crisi sta inoltre scatenando difficoltà economiche non indifferenti in Giordania. La crescente inflazione si accompagna, per esempio, a una forte crisi del settore turistico, particolarmente importante per il Paese.
Secondo i dati emessi dalla Banca Centrale della Giordania (CBJ) il volume di guadagni legati al turismo, nei primi cinque mesi del 2024, ha registrato un calo del -6.5% rispetto allo stesso periodo del 2023. Si stima infatti che dall’inizio del conflitto siano state cancellate oltre il 60% delle prenotazioni.
Il Consiglio esecutivo del Fondo monetario internazionale (Fmi) ha approvato, a inizio anno, un nuovo accordo quadriennale con la Giordania, dal valore di circa 1,2 miliardi di dollari, per sostenere il programma economico del Governo. L’obiettivo è quello di sostenere gli sforzi del Paese nel mantenere la stabilità macroeconomica.
Tuttavia le sfide a cui deve fare fronte diventano sempre più complesse.
Nonostante il forte interesse del re Abdullah II nel mantenere la stabilità regionale, queste preoccupazioni potrebbero non coincidere sempre con le esigenze interne del Paese. Il rischio è quello di trovarsi su un battello in cui, mentre si cerca di tappare una falla, se ne sviluppano altre, compromettendo la stabilità complessiva.

 

– Giusy Monforte, Analista politica

Coordinamento a cura di Ciro Sbailò

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