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Nuovo fallimento del processo costituente in Cile

Per la seconda volta in poco più di un anno, in Cile è prevalso il voto contrario nel referendum sul progetto di riforma della Costituzione. Il voto referendario chiude una stagione referendaria iniziata tra il 2019 ed il 2020, e che dopo questa battuta d’arresto rimarrà sospesa a tempo indefinito, secondo le parole del Presidente cileno Gabriel Boric.

Nel 2020 si era celebrato un primo referendum, con cui il popolo cileno aveva espresso chiaramente la volontà di sostituire la Costituzione del 1980, imposta con la violenza durante la feroce dittatura militare di Augusto Pinochet. Così, nel settembre 2022 fu realizzata una prima bozza di costituzione da parte di un organo costituente di orientamento indipendente, sostenuta dal governo dell’epoca e dai partiti di sinistra. La riforma era caratterizzata da uno spirito molto progressista, prevedendo il riconoscimento dei popoli indigeni e delle loro richieste sia politiche che territoriali, il rafforzamento del diritto all’aborto e l’introduzione dei diritti della natura e degli animali. Eppure, il referendum comportò una sonora bocciatura della riforma da parte di quasi il 62% dei cittadini cileni. 

Il 17 dicembre 2023, un secondo referendum ha comportato un nuovo, netto voto contrario di oltre il 55% degli aventi diritto ad una proposta di modifica costituzionale molto più conservatrice della precedente. La bozza respinta dal voto referendario era stata sostenuta fortemente dalla maggioranza di destra che aveva prevalso nelle elezioni di maggio 2023 del Consiglio costituzionale, incaricato di redigere il nuovo testo di riforma, conquistando 33 dei 50 seggi disponibili nell’organo costituente. La proposta che ne era uscita sanciva un approccio molto liberista riguardo alla gestione dell’economia, ed estremamente conservatore sulla tutela di alcuni diritti, al punto da essere definito più a destra della stessa Costituzione del 1980 dalla Politologa cilena Claudia Heiss. 

In materia di diritti, l’art. 16 del nuovo testo prevedeva l’equiparazione legale del feto a individuo, statuendo: “il diritto alla vita. La legge protegge la vita di chi sta per nascere. Si proibisce la pena di morte”. Secondo le opposizioni, una formulazione del genere avrebbe comportato una rigida limitazione al diritto di interruzione volontaria della gravidanza, attualmente riconosciuto nel Paese ma vietato fino al 2017 tranne che in rari casi specifici, come il rischio di vita per la donna o stupro. Più in generale, si temeva che l’impostazione della riforma promossa dalla destra avrebbe comportato una aperta repressione contro tutte le minoranze, andando dai popoli indigeni ai membri della comunità Lgbtqia+, sebbene d’altro canto la bozza prevedesse il riconoscimento a livello costituzionale dei popoli nativi, accogliendo per la prima volta a livello costituzionale le richieste delle comunità indigene, soprattutto dei Mapuche, che rappresentano circa 12 per cento della popolazione. L’art. 5 a riguardo recitava: “La Costituzione riconosce i popoli indigeni come parte della Nazione cilena, che è una e indivisibile”.

Come per il tentativo del 2022, anche il processo riformatorio del 2023 in Cile fallisce per responsabilità della politica, che imponendo alla Grundnorm del Paese una certa impostazione ideologica, dimentica appunto la natura di “norma delle norme” che connota ogni Carta costituzionale realmente liberale e democratica. Un errore strategico di chi non comprende che la Costituzione deve invece essere di tutti, e che affinché realmente lo sia non può che essere scritta insieme, cercando i compromessi necessari affinché non venga percepita come di una parte sola. Nel 1946, i Costituenti italiani lo avevano ben intuito e, al netto dei correttivi pure necessari apposti negli anni, il risultato del loro lavoro fu una Carta il cui impianto complessivo si è dimostrato solido e funzionale nel tempo, e dei cui benefici sia istituzioni che cittadini godono tuttora, a 75 anni dalla sua promulgazione. 

Coordinamento a cura di Ciro Sbailò

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