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Sudan: Perché la guerra civile “a fari spenti” è un problema mondiale

Il conflitto, che ha già provocato la morte di 150.000 persone, non può avere esito militare. Il cessate il fuoco, fondamentale, richiede la fine delle interferenze straniere e deve portare a un negoziato politico che includa i rappresentanti della società civile sudanese che ha abbattuto la dittatura nel 2019.

Il conflitto, che ha già provocato la morte di 150.000 persone, non può avere esito militare. Il cessate il fuoco, fondamentale, richiede la fine delle interferenze straniere e deve portare a un negoziato politico che includa i rappresentanti della società civile sudanese che ha abbattuto la dittatura nel 2019.

 

Tra il silenzio e l’indifferenza dei Media internazionali, mentre i riflettori di Europa e Stati Uniti sono puntati sul conflitto tra Israele e Hamas (che si consuma sui civili di Gaza) e sull’Ucraina (con la controffensiva nel Kursk che rischia di far saltare il versante di Donetsk), un’altra terribile guerra infuria in Sudan. Un paese dell’Africa orientale, il terzo più grande di tutto il continente, con una posizione strategica grazie al suo sbocco sul Mar Rosso, uno dei principali asset del commercio globale. La sua capitale Khartoum è stata rasa al suolo, si stimano più di 10 milioni di sfollati (un quinto dell’intera popolazione), mentre si profila una carestia che potrebbe essere più letale di quella dell’Etiopia negli anni ’80, stimando che 2,5 milioni di civili potrebbero morire entro la fine del 2024. Lo denuncia in apertura l’Economist, dedicando la copertina del suo ultimo numero alla peggior catastrofe umanitaria del pianeta, secondo le Nazioni Unite. Oltre a mettere in fila le cifre, il prestigioso settimanale londinese avverte sui rischi di una sottovalutazione per l’Occidente di quella che è diventata “una vera e propria bomba a orologeria geopolitica”, sia sul fronte delle conseguenze migratorie sia come possibile fucina per il terrorismo internazionale.

 

Mercoledì 14 agosto 2024 a Ginevra, i tiepidi colloqui in vista di un cessate il fuoco hanno fatto prudentemente luce su questa guerra civile a “fari spenti”, che dal 15 aprile 2023 contrappone due signori della guerra senza scrupoli in lotta per il controllo dello Stato e lo sfruttamento delle sue risorse (acqua, petrolio, oro). Da una parte, le truppe regolari delle Forze Armate Sudanesi (SAF) condotte dalla guida de facto del paese, il generale Abdel Fattah al-Burhan; dall’altra, i paramilitari delle Rapid Support Forces (RSF) comandate dal suo ex vice, il generale Mohamed Hamdan “Hemedti” Dagalo” – lo stesso capo delle milizie Janjaweed che parteciparono al genocidio del Darfur negli anni 2000. Nel 2021, con un colpo di Stato militare congiunto, i due generali hanno rovesciato il governo democratico di transizione, annullando le conquiste della rivolta popolare che nel 2019 abbatteva la dittatura islamista di Omar Al-Bashir, al potere dal 1989.

 

“Una cerniera strategica”

 

Le sue dimensioni, oltre ai confini porosi con sette “Stati fragili” (tra cui Ciad, Egitto ed Etiopia) e la sua posizione lungo una delle “rotte calde” della migrazione, che dalla turbolenta fascia saheliana (con i recenti colpi di Stato in Niger, Mali e Burkina Faso) si proietta verso il Mediterraneo (tramite la Libia), rendono il “Paese dei neri” (questa la sua definizione in arabo) un luogo centrale. Il gioco di alleanze e la contesa per l’influenza regionale, con la persistente minaccia Houthi sul Mar Rosso estesa all’arteria strategica di Suez, fanno del Sudan l’epicentro di dispute geopolitiche le cui implicazioni oltrepassano la portata di una guerra fratricida.

 

Oltre all’Africa, che sta accogliendo un numero sempre crescente di rifugiati sudanesi, c’è da aspettarsi una nuova crisi dei rifugiati in Europa dopo quelle scaturite dalla Primavera araba in Siria e Libia. Lo afferma ancora l’Economist. In un momento in cui la migrazione è una questione incendiaria in Francia (in Germania, così come altrove), già il 60% delle persone nei campi di Calais, sulla sponda sud della Manica, ha origine sudanese. Tanto più che il Sudan – ricorda il settimanale inglese – ha già sopportato una guerra civile “a intermittenza” fin dall’indipendenza nel 1956. Un sanguinoso conflitto concluso nel 2011 con la secessione del Sudan del Sud, dopo quasi ventidue anni di guerra civile tra le regioni settentrionali e meridionali del Paese, rispettivamente a maggioranza arabo-musulmana e subsahariana-cristiana. Dal 2003, un’ondata di combattimenti genocidaria ha dilaniato per più di un decennio gli Stati occidentali del Darfur, regione di origine di RSF e del suo leader dove sono accusati per crimini di guerra dalla Corte penale internazionale dell’Aia. Oggi a Khartoum i belligeranti bombardano i civili, reclutano bambini e infliggono la fame sulla popolazione locale, mentre le RSF sono nuovamente accusate, in modo plausibile, di stupri di massa e genocidio.

 

“Interessi di vicinato”

 

In assenza di un obiettivo ideologico delineato ovvero di una compiuta pacificazione nazionale, nel quadro di disimpegno dell’Occidente e della “paralisi diplomatica” nel Consiglio di Sicurezza ONU, gli Stati mediorientali e la Russia si inseriscono nella contesa per l’influenza in questo tratto di mare. Continuando a sponsorizzare, impunemente, i due belligeranti presi in un conflitto estremamente costoso, sia in termini di uomini sia di armamenti e carburante. 

 

Ora che lo scontro al vertice sudanese è diventato un gioco a somma zero, l’Egitto (intenzionato a scongiurare, anche militarmente, il rischio di un’“altra Libia”) e Turchia (che sfrutta il fattore religioso islamico per  l’influenza strategica nell’area subsahariana) pendono per al-Burhan, mentre le due monarchie del Golfo hanno un passato e un presente di accordi e commercio con Dagalo “Hemedti”.

 

In particolare, le RSF beneficiano del sostegno cruciale degli Emirati Arabi Uniti (UAE) – attraverso la fornitura di proiettili e droni alle forze irregolari di “Hemedti” – in parte prodotto di relazioni personali sviluppate dal generale nell’ultimo decennio. Il leader delle RSF, ha inviato le sue forze in Yemen per conto di Abu Dhabi,  a sostegno del regime secessionista nel Sud, combattendo in Libia a fianco del suo alleato Khalifa Haftar. Questa partnership va inquadrata con la più ampia strategia emiratina per sconfiggere l’Islam politico ed estendere l’influenza commerciale nell’entroterra africano. Attraverso il Ciad, la Libia, la Repubblica Centrafricana o il Sud Sudan (gravitanti nell’orbita UAE), le RSF hanno potuto rifornirsi di attrezzature moderne, carburante e combattenti, oltre alle armi rubate all’esercito regolare.

 

D’altra parte, con il limitato supporto logistico da parte dell’Egitto che secondo il Wall Street Journal ha consegnato droni turchi alla SAF, l’esercito regolare di al-Burhan si rivolge ai vecchi alleati del regime islamista di Omar Al-Bashir – Iran, Russia e Turchia in testa – per rifornirsi di droni, missili e munizioni. Più di una dozzina di consegne iraniane, in particolare droni Mujaheer, hanno offerto alle SAF una spinta tecnologica decisiva nella battaglia di Omdurman – fa notare il quotidiano francese Le Monde. Alcuni osservatori riportano che il Qatar avrebbe depositato 1 miliardo di dollari nella banca centrale sudanese per sostenere la valuta e abbia recentemente firmato un accordo per aumentare il commercio di oro tra i due paesi, a spese di Dubai.  L’Arabia Saudita, che non vuole uno stato fallito proprio dall’altra parte del Mar Rosso, ha ospitato colloqui di pace, senza alcun risultato.

 

Le consegne di armi russe, principalmente armi leggere e missili per i caccia Sukhoi, rimangono limitate. La Russia, che ha giocato su entrambi i fronti e ha schierato mercenari Wagner, tenta di monetizzare un sostegno più massiccio in cambio dell’installazione di una base a Port Sudan.  Il paese potrebbe diventare un rifugio per i terroristi o fornire un punto d’appoggio per altri regimi desiderosi di ridefinire lo status quo geopolitico.  

 

Con la Cina che ha scarso interesse a risolvere guerre lontane, oltre a Mosca, anche Teheran chiede una base navale sulla costa del Sudan in cambio dell’armamento della sicurezza. Sebbene la SAF dichiari di aver esitato, l’asserzione del Wall Street Journal rafforza i timori di Washington. Il Sudan potrebbe dare all’Iran un altro nodo nella sua rete di proxy. A preoccupare i funzionari americani è il fatto che gli Houthi e al-Shabaab (la milizia jihadista legata ad al-Qaeda in Somalia) abbiano discusso di cooperazione nel Mar Rosso. Evidentemente, sarebbero ancora più allarmati se anche gruppi islamici sudanesi fossero coinvolti. 

 

Se in Sudan dovesse ripetersi uno scenario libico con la spartizione del paese, o se diventasse uno Stato canaglia ostile all’Occidente, allora si metterebbe ulteriormente a repentaglio il funzionamento del Canale di Suez, dove transita un settimo del commercio mondiale, principalmente tra Europa e Asia. Il traffico marittimo nella regione sta già affrontando interruzioni dagli attacchi dei ribelli Houthi a largo dello Yemen, costringendo le navi cargo a fare lunghe e costose deviazioni attorno all’Africa.

 

“Una via d’uscita”

 

Anche se non si intravede alcun esito militare, e l’alternativa di un fronte civile unito non rappresenta un compito facile, dietro le quinte le discussioni diplomatiche lavorano per la conclusione di un accordo. Per molti sudanesi in esilio, la Coalizione sudanese delle forze democratiche (fondata ad Addis Abeba nell’ottobre 2023 e guidata dall’ex primo ministro Abdallah Hamdok) quanto la Carta delle Forze del Sudan (creata al Cairo a maggio 2024), mancano di legittimità e sono accusati di servire da copertura per interessi militari, rispettivamente di RSF e SAF.

 

I due pesi massimi del Cairo e di Abu Dhabi, sostenendo ciascuno un campo avversario, cercano di spingere per una risoluzione che offra una via d’uscita per entrambi i generali e avvii una nuova transizione politica in cui le forze armate manterrebbero un ruolo importante negli organi del potere lasciando la loro rappresentanza a un governo civile. Con il risultato di riprodurre di fatto il “paradigma al-Bashir”.

 

Intanto, continuando a tergiversare con la burocrazia necessaria per stabilire un cessate il fuoco a livello nazionale e garantire l’accesso agli aiuti umanitari, le due parti stanno condannando a morte milioni di sudanesi. La priorità, per l’Occidente – desideroso di limitare i flussi migratori e contenere la minaccia terroristica – quanto per l’Asia, che ha bisogno di un Mar Rosso stabile – è fare pressione sui signori della guerra che che contribuiscono a questo prolungato equilibrio di terrore nel grande Stato africano, compresi gli alleati regionali di Emirati Arabi Uniti ed Egitto.

 

Alessio Zattolo – PhD Student

Coordinamento a cura di Ciro Sbailò

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