GEODI – UNINT

Taiwan: i risultati delle elezioni 2024, il primo “referendum” sulla democrazia globale.

La campagna elettorale e lo spoglio dei voti presidenziali e legislativi si sono conclusi a Taiwan, in una delle elezioni più seguite del «super anno elettorale» che vedrà oltre metà della popolazione mondiale, circa 4 miliardi di persone, andare alle urne per determinare il futuro politico di 76 nazioni: una grande sfida per la democrazia. L’attenzione dei media internazionali al tema che riguarda Taipei – col nome ufficiale di Repubblica di Cina – è sembrata rivolgersi non tanto ai risvolti del processo democratico in sé quanto ai suoi rapporti con Pechino, che dalla fine della Guerra civile cinese rivendica Taiwan come sua provincia, auspicando la riunificazione dell’isola con la terraferma.

“Abbiamo mostrato al mondo quanto abbiamo a cuore la democrazia”. Sono queste le prime parole con cui Lai Ching-te si è rivolto ai suoi sostenitori dopo che le urne lo hanno incoronato presidente di Taiwan. Lai ha ringraziato il popolo di Taiwan per aver “resistito alle interferenze straniere” – implicito ma evidente il riferimento a Pechino – ed “aver scritto un nuovo capitolo nella nostra democrazia”.  Un capitolo che, tuttavia, non sembra prestarsi ad una facile lettura.

Noto anche come William Lai, l’attuale vicepresidente – che la Cina continentale ha additato come “piantagrane” – si insedierà il 20 maggio al Presidential Office Building di Taipei, in sostituzione di Tsai Ing-wen, la prima presidente donna di Taiwan a capo del Partito democratico progressista (DPP), costretta costituzionalmente a lasciare la guida dell’isola dopo due mandati. Il neoletto nelle fila del DPP, che sostiene l’identità separata dalla Repubblica popolare e respinge le rivendicazioni di sovranità di Pechino, ha ottenuto la vittoria nella sfida a 3 alle elezioni presidenziali, con oltre il 40% dei voti validi. Alle sue spalle, fermo al 34%, Hou Yu-ih, in corsa per i nazionalisti del Kuomintang (KMT), favorevole a stretti legami con la Repubblica popolare nell’ambito del “consenso del 1992” della “One China policy”. Mentre il terzo candidato, Ko Wen-je, del Partito popolare (TPP) – il vero ago della bilancia tra i due blocchi – che si è concentrato più sulle questioni interne come l’energia e l’edilizia abitativa, non escludendo di voler riallacciare i rapporti con la Cina, è scivolato al 27%.

In palio un totale di 13, 6 milioni di voti, con un’affluenza alle urne di oltre il 70% dei 19,5 milioni degli elettori aventi diritto su una popolazione di 23 milioni, leggermente inferiore al record di circa il 75% del 2020. Le elezioni, in una delle democrazie più vibranti d’Asia, secondo il rapporto annuale di Freedom house che misura il grado di libertà civili e diritti in 210 Paesi, si sono svolte in un singolo giorno, senza l’opzione del voto per corrispondenza. Tuttavia, il DPP non è riuscito a mantenere la maggioranza assoluta dei 113 seggi al Parlamento monocamerale, lo Yuan legislativo, aggiungendo una nota di incertezza alla questione più concreta di politica nazionale: la futura presidenza di Lai.

La posta in gioco era particolarmente alta, con i risultati che dovrebbero plasmare le relazioni tra le due sponde dello Stretto, inaugurando uno storico terzo mandato per il partito di governo indipendentista al potere dal 2016, nel mezzo della competizione strategica tra Stati Uniti e Cina che sta ridisegnando gli equilibri mondiali. L’interesse sulle eventuali conseguenze del voto del 13 gennaio, in particolare degli osservatori internazionali che temono l’apertura di un terzo fronte dopo Ucraina e Medio Oriente, parte però da un fraintendimento di fondo.

Se è vero, infatti, che il rapporto con Pechino ha rappresentato un tema centrale nel dibattito politico, è altrettanto vero che i tre sfidanti all’ultima competizione elettorale hanno trovato un terreno comune nell’individuare vari gradi di sostegno al mantenimento dello Status quo. Sul tema della traiettoria delle relazioni con la Cina, questo significa che nessuno a Taipei si sognerebbe di stravolgere il sistema democratico e completamente autonomo dell’isola, perseguendo una dichiarazione di indipendenza de iure come Repubblica di Taiwan. Secondo tutti i sondaggi, “si tratta piuttosto di un voto su chi i taiwanesi reputano più convincente nel mantenere la sovranità de facto di Taiwan”, ha dichiarato Vincent Chao, a capo degli affari internazionali del DPP, come riportato dal Foglio.

Durante il cosiddetto Super Sunday, il candidato dei progressisti, che è riuscito ad ottenere la vittoria pur venendo bollato come “indipendentista” – una posizione che è stata più volte motivo di discussione, sia a Washington sia a Pechino – ha definito il voto una scelta “tra democrazia e autocrazia”, aggiungendo che il suo governo “userà il dialogo” con la Cina.  Una posizione che stride con la logica di un «referendum sulla guerra» promossa dalla propaganda del presidente cinese Xi Jinping, il quale, subito dopo il voto ha ribadito che “la riunificazione con la madrepatria è una certezza storica”, senza mai escludere anche l’uso della forza per raggiungerla. Anche gli Stati Uniti, che rappresentano il principale sponsor internazionale, nonché fornitore di armi, di Taipei nonostante la mancanza di legami diplomatici formali, hanno seguito da vicino le elezioni. “Non sosteniamo l’indipendenza di Taiwan” ha commentato il presidente USA, Joe Biden, enfatizzando prima dell’apertura dei seggi che “sarebbe inaccettabile” ogni forma di interferenza nel voto, da parte di “qualunque” potenza. “Taiwan è una democrazia forte”. Lo ha affermato, invece, il sottosegretario americano, Antony J. Blinken, che ha chiamato Lai per congratularsi con il presidente neoletto e con il popolo taiwanese. In pratica, l’Amministrazione Biden manda a dire che Taiwan è già un Paese sovrano, e non c’è bisogno di dichiarare un’altra indipendenza.

Sembra chiaro, dunque, che la nuova presidenza avrà poco controllo sulle linee di faglia geopolitica dell’isola, espresse nel rafforzamento militare cinese e nelle crescenti rivalità sino-americane. Sabato scorso Taipei ha fatto sapere al gigante autocratico della Repubblica popolare che le democrazie vogliono restare tali. Il modo in cui Pechino reagirà alle scelte fatte dagli elettori di Taiwan rappresenta il vero «referendum sulla guerra». Intanto, il progetto imperiale di Xi Jinping di porre la Cina al centro del Mondo dovrà aspettare ancora.

Coordinamento a cura di Ciro Sbailò

Università degli Studi Internazionali di Roma - UNINT

Via Cristoforo Colombo, 200 - 00147 Roma | C.F. 97136680580 | P.I. 05639791002 | Codice SDI: M5UXCR1 | Mail: geodi@unint.eu