GEODI – UNINT

Le donne nel conflitto in MO: due volte vittime

 

Quanto contano le donne in uno scenario decisionale geopolitico? Finora, decisamente troppo poco. Le guerre, per molto tempo, sono state decise, combattute e raccontate solo dagli uomini, o comunque, soprattutto dagli uomini. 

Fin dallo scoppio del conflitto Gaza/Israele, già pochi giorni dopo il tragico 7 ottobre, le donne palestinesi e israeliane sono scese in piazza chiedendo la pace. 

Una donna che ha visto morire il figlio nell’attacco di Hamas, con riferimento alla risposta israeliana Iron Swords ha detto di fronte a tutto il mondo “Not in my name”.  

Uno dei primissimi ostaggi liberati da Hamas era una donna di 85 anni, che al momento del rilascio ha toccato la mano di uno dei sequestratori dicendo “Shalom”, pace.

Nel video diffuso da Hamas di recente parlano tre ragazze catturate dai terroristi, in ebraico. Chiedono di essere riportate a casa, due hanno 19 anni e una 31. Due sono soldatesse. In Israele il servizio militare è obbligatorio anche per le ragazze fin dalla fondazione dello Stato: di conseguenza ha fatto notizia il caso della giovane che ha sollevato di recente l’obiezione di coscienza, rischiando un mese di reclusione. L’alternativa è partecipare a un assedio in cui il rischio di uccidere donne e bambini palestinesi è altissimo.

Ci sarebbe da chiedersi perché gli uomini decidono e combattono la guerra e la maggior parte delle donne vogliono la pace. Forse perché le donne la guerra- da sempre- la subiscono di più. 

Lo stupro come arma di guerra non è certo stato usato per la prima volta da Hamas nella storia: basti pensare a quanto accaduto nella Seconda guerra mondiale o al conflitto nei Balcani negli anni Novanta, descritto, nel libro “Venuto al mondo” di Margaret Mazzantini, come la guerra che uccide e procrea al tempo stesso. 

Il dramma della violenza carnale, oltre a segnare psicologicamente per sempre qualsiasi donna, nelle guerre di dominio è una forma di conquista, perché impone quanto meno il rischio (frequentemente verificatosi poi) addirittura di generare “i figli del nemico”.

È una conseguenza che può essere imposta solo a una donna e che può essere subita solo da una donna, non da un uomo, che, pur potendo essere vittima di stupro, non può, per natura, generare la prole dell’aggressore.

La preoccupazione di Israele, secondo quanto si legge sulla stampa negli ultimi giorni, è anche che le donne prigioniere dei tunnel siano rimaste incinte in seguito alle violenze.

Se non vengono liberate in tempo, potrebbero non rientrare più nel termine per abortire, nonostante la legge israeliana abbia reso di recente la procedura più semplice. Come se abortire non fosse un ennesimo trauma, un’altra violenza che la donna vittima di stupro impone a sé stessa. Dopo una violenza di guerra scegliere di portare avanti la gravidanza o di abortire è solo un’altra imposizione, sono entrambe scelte dolorosissime, che nessuna donna dovrebbe essere costretta a fare. Ma non ci sono alternative, il conflitto in Medio Oriente per una donna è anche questo.

Non sono solo le donne israeliane ostaggio di Hamas a essere vittime del conflitto. A Gaza manca tutto, manca l’acqua, manca l’elettricità, quindi figuriamoci se si trovano gli assorbenti. Ma anche avere il ciclo durante una guerra non è una scelta per una donna. Ci si arrangia con brandelli di stoffa, e senza acqua diventa difficilissimo lavarsi. Queste notizie non vanno certo in prima pagina. Però è anche così che si toglie la dignità a una donna. Secondo una nota di Action Aid “Alcune donne sfollate che vivono a Rafah sono così disperate che tagliano piccoli pezzi dalle tende su cui fanno affidamento per ripararsi dal freddo e dalla pioggia per usarli come sostituti degli assorbenti, rischiando però di contrarre infezioni. La mancanza d’acqua rende quasi impossibile una corretta igiene: le donne ci hanno raccontato di essere rimaste per settimane senza fare la doccia.” E ancora: “Rafah attualmente ospita più di un milione di sfollati – più di quattro volte la sua popolazione abituale – in condizioni di estremo sovraffollamento e non c’è privacy. Le code per i servizi igienici sono lunghissime”. Si stima che nei rifugi ci sia solo un bagno ogni 486 persone.   “Adara, sfollata da casa con i suoi quattro figli, ci ha raccontato: “Soffriamo molto ogni volta che vogliamo andare in bagno. Stiamo in fila per molto tempo e i bagni sono lontani”.”  

Secondo l’Unocha, Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari “Solo una delle tre condutture idriche da Israele a Gaza è attualmente funzionante. Le persone hanno accesso in media solo a 1,5-2 litri d’acqua al giorno, un valore inferiore ai 3 litri necessari per la sopravvivenza di base e ben al di sotto dei 15 litri minimi necessari a persona ogni giorno per soddisfare tutte le esigenze idriche e igienico-sanitarie”. 

Riham Jafari, coordinatrice Advocacy e Comunicazione di ActionAid Palestina, ha dichiarato: “Immaginate di dover gestire le vostre mestruazioni senza assorbenti, carta igienica o sapone, e senza la possibilità di lavarvi. Il tutto vivendo a stretto contatto con altre persone senza la privacy necessaria. Questa è la realtà per centinaia di migliaia di donne e ragazze a Gaza in questo momento. Non si tratta solo di un affronto alla loro dignità, ma anche di un vero e proprio pericolo per la loro salute”. E ancora: “La popolazione di Gaza ha bisogno è un cessate il fuoco permanente, ora, per porre fine all’insensata uccisione di civili, con donne e ragazze che rappresentano il 70% delle vittime”.   

Dare voce alle vittime, quindi, vuol dire sostanzialmente dare voce alle donne. I leader dei Paesi coinvolti nel conflitto, peraltro, sono praticamente tutti uomini. Meritevole di nota a questo punto l’intervento di un mese fa di Sarah Netanyahu, la moglie del premier israeliano Benyamin Netanyahu, che ha scritto una lettera a papa Francesco chiedendo il “personale intervento” per il rilascio degli ostaggi “senza condizioni e senza indugio” e per “fare appello alla Croce Rossa di visitare tutti gli ostaggi e consegnare loro medicine vitali”. 

Allo stato, anche questa richiesta è rimasta priva di esiti.

Analisi rischi sistema

Sinwar è morto, ma uno Stato palestinese sembra più distante che mai

L’uccisione di Yahya Sinwar, leader di Hamas, ha alimentato speranze nell’amministrazione Biden di poter avvicinare la creazione di uno Stato palestinese. Tuttavia, questo obiettivo sembra più lontano che mai: a Gaza regnano morte e devastazione, manca una guida palestinese solida e Israele è ancora scossa dall’attacco di Hamas del 7 ottobre. Il tutto nonostante Biden auspichi una tregua temporanea a Gaza e il ritorno degli ostaggi israeliani, aprendo la strada a negoziati per una soluzione a due Stati.

Geopolitica

Cosa sono le alture del Golan e chi sono i drusi, le vittime di un attacco mortale contro Israele?

Sabato 27 luglio, 2024. Le tensioni al confine tra Israele e Libano hanno raggiunto un nuovo apice dopo l’attacco missilistico, attribuito al gruppo militante di Hezbollah, che è costato la vita a dodici ragazzini israeliani nella città araba di Majdal Shams, sulle Alture del Golan. Martedì 30 luglio, Tel Aviv ha dato inizio alla sua vendetta con un raid su un sobborgo meridionale della capitale libanese Beirut. Un fattore che complica l’affannata risposta diplomatica, per evitare lo scoppio di una guerra regionale totale, è il fatto che le vittime appartenevano alla minoranza religiosa ed etnica dei drusi.

Geopolitica

Giordania: il difficile equilibrio tra stabilità regionale e caos interno

Lo scorso 5 luglio una folla di manifestanti ha marciato per il centro di Amman, sventolando cartelli e bandiere a sostegno della Palestina.
Jason Burke, inviato del The Guardian riporta che centinaia di manifestanti hanno attraversato Rainbow street, un tempo meta preferita dei turisti, all’urlo di “Bruceremo Israele! Vogliamo la testa di Netanyahu!”.
Dall’attacco in Israele del 7 ottobre, e dalla successiva invasione di Gaza, la Giordania sta attraversando una delle sue sfide più difficili.

Analisi rischi sistema

La minaccia asimmetrica Houthi: una chiave per capire il presente

Il Mar Rosso si è nuovamente trasformato in un teatro di tensioni che da mesi a questa parte disturbano i sonni di non poche leadership mondiali. Arteria vitale per il fluido scorrimento di circa il 15% del traffico marittimo internazionale, le sue acque meridionali sono interessate da un nuovo tipo di conflitto, nel quale un’entità ibrida a metà tra uno Stato ed una milizia sfida l’ordine talassocratico imposto dalla potenza militare americana.

Analisi rischi sistema

La strategia asimmetrica dell’Iran e il rischio di escalation in Libano

Nella notte tra il 13 e il 14 aprile la Repubblica Islamica dell’Iran ha condotto il più grande attacco dronico mai registrato contro lo Stato di Israele. L’operazione, denominata “Promessa sincera”, ha visto l’impiego di 170 droni, 120 missili balistici e almeno 30 missili guidati e costituisce il primo attacco diretto della Repubblica islamica contro Israele dalla rivoluzione khomeinista del 1979. L’operazione è stata condotta come risposta all’attacco aereo israeliano del 1° aprile contro l’ambasciata iraniana in Siria, nella quale sarebbero deceduti 13 funzionari.

Geopolitica

Iran: la strada in salita del riformatore Massoud Pezeshkian

L’Iran ha un nuovo presidente. Settant’anni a settembre, il cardiochirurgo e parlamentare che chiede “relazioni costruttive” con Washington e i Paesi europei per “far uscire il Paese dal suo isolamento”, ha vinto il secondo turno delle elezioni presidenziali di venerdì 5 luglio 2024, davanti all’ultraconservatore Saïd Jalili, 58 anni. Ma il candidato neo eletto resta “sorvegliato speciale” nel campo dei sostenitori della linea dura del regime di Teheran.

Coordinamento a cura di Ciro Sbailò

Università degli Studi Internazionali di Roma - UNINT

Via Cristoforo Colombo, 200 - 00147 Roma | C.F. 97136680580 | P.I. 05639791002 | Codice SDI: M5UXCR1 | Mail: geodi@unint.eu