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Ritirata dall'Iraq: l'addio americano ad una terra incerta

Mercoledì 24 gennaio è stata ufficialmente presentata dall’ambasciatore americano in Iraq, Alina Romanowsky, al ministro degli Esteri iracheno, Fuad Hussein, con cui si inizieranno a definire i passaggi che porteranno al ritiro delle 2.500 truppe militari statunitensi in Iraq, temendo che con l’escalation del conflitto in Medio Oriente possano diventare dei facili bersagli. 

Una decisione presa in seguito alle crescenti ostilità nei confronti del contingente militare americano in Siria e Iraq, considerando che dall’inizio del conflitto in Medio Oriente si sono verificati più di 150 attacchi alle basi militari americane, finite nel mirino delle milizie filoiraniane del Fronte di Mobilitazione Popolare, gruppo riconosciuto anche da Baghdad. 

Tuttavia, per i 900 militari stanziati in Siria non sembra prospettarsi una smobilitazione, sia a causa del perdurare del conflitto civile, che per il fondamentale sostegno ai curdi delle Forze democratiche siriane (Sdf) nel contenere e contrastare i gruppi islamisti radicali come l’Isis. In varie zone del paese ufficialmente sotto il controllo di Bashar al-Assad la situazione è ancora complessa, viste le persistenti insurrezioni dello Stato Islamico: il 16 gennaio, si è verificato nella zona nord-est del paese un attacco missilistico dell’ISIS contro una prigione amministrata dalle Sdf che conteneva circa 5.000 prigionieri dello Stato Islamico, innescando un tentativo di evasione di massa sedato dall’intervento americano. 

Inoltre, nei primi 10 giorni del 2024, il gruppo ha rivendicato 35 attacchi in 7 delle 14 provincie della Siria, e stando ai dati del Counter Extremism Project, solo nel 2023, lo Stato Islamico ha condotto 212 attacchi nella regione desertica centrale della Siria, uccidendo almeno 502 persone. Negli ultimi anni, lo Stato Islamico ha intenzionalmente nascosto le proprie operazioni in Siria, scegliendo costantemente di non rivendicare la responsabilità degli attacchi che stava conducendo. Tuttavia, innescato dalla guerra di Israele contro Hamas, ha iniziato a rivelare il proprio peso operativo in Siria. L’Isis, esattamente come un decennio fa, prospera nel caos e nell’incertezza, e di questi tempi in Medio Oriente non mancano.

Lo ricordiamo, le truppe americane, dopo il ritiro del 2011 in seguito alla fine della Seconda guerra del Golfo con conseguente caduta di Saddam Hussein, tornarono sul suolo iracheno nel 2014 per guidare l’avanzata dell’esercito di Baghdad e la coalizione internazionale per la riconquista di Mosul e della piana del Ninive, finite sotto il controllo di Daesh, fino alla liberazione dell’ultima sacca di territorio in Siria all’inizio del 2019.

Una mossa che, secondo vari analisti, è stata presa anche per giovare l’amministrazione Biden in chiave elettorale: accusato, insieme alle precedenti amministrazioni Obama, di essere un guerrafondaio, quella di aver concluso una missione in Medio Oriente che perdura ormai da dieci anni potrebbe essere una carta da giocare in campagna elettorale contro il sempre più probabile avversario repubblicano Donald Trump. Inoltre, il rischio di soldati americani feriti o deceduti in terra straniera durante l’anno elettorale sarebbe un duro colpo da sopportare per Biden.

Tuttavia, l’amministrazione americana teme un nuovo collasso delle forze armate irachene davanti all’avanzata dello Stato Islamico come avvenuto nel 2014. Evidente come una diretta conseguenza, sia che l’esercito iracheno riesca a gestire o meno un tentativo di ribalta da parte dell’Isis, sarà altresì il rafforzamento dell’asse Baghdad Teheran, spinti, oltre che dalla visione sciita, anche da interessi regionali combacianti. 

Anche se c’è poco che le forze statunitensi possano fare per alterare le attività dello Stato Islamico nelle regioni della Siria controllate dal regime, le truppe statunitensi sono il collante che tiene insieme l’unica sfida significativa allo Stato Islamico entro un terzo del territorio siriano. Se quel collante dovesse scomparire, una significativa ripresa in Siria sarebbe quasi garantita, e una ricaduta destabilizzante in Iraq una certezza. Se il ritiro degli Stati Uniti dovesse far precipitare il ritorno al caos dello Stato Islamico, uno degli scenari più probabili sarebbe quello di relegazione degli americani a semplici osservatori, incapaci di tornare in una regione offerta al controllo di un regime intoccabile e dei suoi alleati russi e iraniani.

Analisi rischi sistema

Sinwar è morto, ma uno Stato palestinese sembra più distante che mai

L’uccisione di Yahya Sinwar, leader di Hamas, ha alimentato speranze nell’amministrazione Biden di poter avvicinare la creazione di uno Stato palestinese. Tuttavia, questo obiettivo sembra più lontano che mai: a Gaza regnano morte e devastazione, manca una guida palestinese solida e Israele è ancora scossa dall’attacco di Hamas del 7 ottobre. Il tutto nonostante Biden auspichi una tregua temporanea a Gaza e il ritorno degli ostaggi israeliani, aprendo la strada a negoziati per una soluzione a due Stati.

Geopolitica

Cosa sono le alture del Golan e chi sono i drusi, le vittime di un attacco mortale contro Israele?

Sabato 27 luglio, 2024. Le tensioni al confine tra Israele e Libano hanno raggiunto un nuovo apice dopo l’attacco missilistico, attribuito al gruppo militante di Hezbollah, che è costato la vita a dodici ragazzini israeliani nella città araba di Majdal Shams, sulle Alture del Golan. Martedì 30 luglio, Tel Aviv ha dato inizio alla sua vendetta con un raid su un sobborgo meridionale della capitale libanese Beirut. Un fattore che complica l’affannata risposta diplomatica, per evitare lo scoppio di una guerra regionale totale, è il fatto che le vittime appartenevano alla minoranza religiosa ed etnica dei drusi.

Geopolitica

Giordania: il difficile equilibrio tra stabilità regionale e caos interno

Lo scorso 5 luglio una folla di manifestanti ha marciato per il centro di Amman, sventolando cartelli e bandiere a sostegno della Palestina.
Jason Burke, inviato del The Guardian riporta che centinaia di manifestanti hanno attraversato Rainbow street, un tempo meta preferita dei turisti, all’urlo di “Bruceremo Israele! Vogliamo la testa di Netanyahu!”.
Dall’attacco in Israele del 7 ottobre, e dalla successiva invasione di Gaza, la Giordania sta attraversando una delle sue sfide più difficili.

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La minaccia asimmetrica Houthi: una chiave per capire il presente

Il Mar Rosso si è nuovamente trasformato in un teatro di tensioni che da mesi a questa parte disturbano i sonni di non poche leadership mondiali. Arteria vitale per il fluido scorrimento di circa il 15% del traffico marittimo internazionale, le sue acque meridionali sono interessate da un nuovo tipo di conflitto, nel quale un’entità ibrida a metà tra uno Stato ed una milizia sfida l’ordine talassocratico imposto dalla potenza militare americana.

Analisi rischi sistema

La strategia asimmetrica dell’Iran e il rischio di escalation in Libano

Nella notte tra il 13 e il 14 aprile la Repubblica Islamica dell’Iran ha condotto il più grande attacco dronico mai registrato contro lo Stato di Israele. L’operazione, denominata “Promessa sincera”, ha visto l’impiego di 170 droni, 120 missili balistici e almeno 30 missili guidati e costituisce il primo attacco diretto della Repubblica islamica contro Israele dalla rivoluzione khomeinista del 1979. L’operazione è stata condotta come risposta all’attacco aereo israeliano del 1° aprile contro l’ambasciata iraniana in Siria, nella quale sarebbero deceduti 13 funzionari.

Geopolitica

Iran: la strada in salita del riformatore Massoud Pezeshkian

L’Iran ha un nuovo presidente. Settant’anni a settembre, il cardiochirurgo e parlamentare che chiede “relazioni costruttive” con Washington e i Paesi europei per “far uscire il Paese dal suo isolamento”, ha vinto il secondo turno delle elezioni presidenziali di venerdì 5 luglio 2024, davanti all’ultraconservatore Saïd Jalili, 58 anni. Ma il candidato neo eletto resta “sorvegliato speciale” nel campo dei sostenitori della linea dura del regime di Teheran.

Coordinamento a cura di Ciro Sbailò

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