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L’incontro Blinken-Netanyahu e i tanti fronti aperti dell’instabilità israeliana.

Il 9 gennaio 2024, il segretario di Stato americano Antony J. Blinken ha incontrato a Tel Aviv il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il suo gabinetto di guerra per discutere della situazione nella Striscia di Gaza, del rilascio degli ostaggi, della pace regionale, nonché di “misure concrete” nel dopoguerra per la nascita di uno Stato palestinese. 

Dopo due anni di sforzi concentrati sul conflitto in Ucraina e di relazioni tese con la Cina, la frenetica attività diplomatica di Washington nella crisi in Medio Oriente, per sostenere lo Stato ebraico e allo stesso tempo mitigare la tragedia umanitaria a Gaza, si inserisce in un contesto di crescente deterioramento delle relazioni tra gli Stati Uniti e il governo di Israele. Il pesante bilancio dell’occupazione israeliana, che dopo 100 giorni di combattimenti ha causato la morte di quasi 24 mila palestinesi secondo i dati del ministero della Salute di Gaza, ha spinto l’amministrazione Biden a chiedere la fine della guerra totale e una fase due meno violenta “per proteggere i civili e consentire agli sfollati di poter tornare alle loro case”.

La reazione di Tel Aviv alle richieste americane è stata tutt’altro che positiva. Precisamente, i media locali hanno descritto il vertice tra il capo della diplomazia USA e il premier israeliano – il quinto dopo gli attentati di Hamas del 7 ottobre – come “tempestoso”, segno evidente delle crescenti tensioni tra i due partner storici. “Israele e USA sono in disaccordo su tutti i punti principali del conflitto, da Gaza al Libano fino allo Stato palestinese. Blinken non otterrà nulla da Netanyahu”. Lo afferma il presidente e CEO del Middle East Institute, Paul Salem, intervistato da Huffpost. Lo Stato ebraico – viene sottolineato – non sembra disposto a soddisfare le richieste di Washington, che ha fissato la scadenza di gennaio per la cessazione delle ostilità, mentre Israele ha avvertito che sarà impegnata nei combattimenti per l’intero 2024. Gli USA hanno poi sottolineato l’imperativo di fornire tutti gli aiuti umanitari ai civili gazawi, ma le autorità israeliane hanno respinto diversi convogli di acqua, cibo e farmaci, secondo l’Ufficio della Nazioni Unite per gli affari umanitari (OCHA). Washington ha ribadito la necessità di creare un’ampia “safe zone” a Gaza, ma Israele l’ha bombardata.

Senza dimenticare che i due alleati divergono sulla soluzione di uno Stato binazionale, una questione cruciale nell’attuale fase del conflitto dal momento che né Netanyahu né Hamas condividono la proposta. In particolare, l’esecutivo di Netanyahu si fonda sulla promessa di astenersi dalla creazione di uno Stato palestinese. Il 22 settembre 2023, due settimane prima delle atrocità commesse dall’organizzazione islamista nel Sud d’Israele, il premier israeliano ha presentato all’Assemblea Generale dell’ONU una mappa del “Nuovo Medio Oriente” che includeva tutta la Cisgiordania e Gaza, Gerusalemme Est e le alture del Golan siriano come parti di Israele, escludendo vistosamente la presenza di uno Stato palestinese. Questa visione contrasta con la soluzione dei “due popoli, due Stati” caldeggiata dagli USA, riducendo le probabilità di un tale sviluppo nelle circostanze attuali.

Le difficoltà nello spazio diplomatico di Israele, emerse subito dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, si sommano all’acutizzarsi di un’annosa crisi interna ai confini israeliani, che inevitabilmente si è riflessa sul processo di integrazione tra lo Stato ebraico e i Paesi arabi moderati e, in seguito, su tutto lo scacchiere geopolitico mondiale. All’indomani della «Tempesta di Al Aqsa», ampi settori dell’opinione pubblica israeliana hanno indicato in Netanyahu il principale colpevole del «disastro» militare e dell’intelligence failure che è costata la vita di oltre 1.200 persone e la cattura di oltre 200 ostaggi, facendo allo stesso tempo un appello all’unità necessaria davanti alla guerra.

Secondo Yuval Diskin, ex capo dello Shin Bet, il servizio segreto interno israeliano, ed Ehud Barak, ex primo ministro, Netanyahu avrebbe contribuito deliberatamente alla crescita di Hamas per indebolire l’Autorità Nazionale Palestinese e promuovere un discorso politico basato sull’assenza di un partner per la pace, perpetuando la narrazione forgiata per giustificare la debacle diplomatica dei negoziati di Camp David tra Ehud Barak e Yasser Arafat nell’estate del 2000. L’attuale premier avrebbe utilizzato la strategia del “divide et impera” per minare l’unità dell’Autorità e delegittimare i partner palestinesi. Lo riporta il The Times of Israel. Nel 2015, Bezalel Smotrich, leader della destra radicale di Sionismo religioso e attuale ministro delle Finanze, spiegò l’approccio al canale della Knesset: «Hamas è un vantaggio e Abu Mazen (Mahmoud Abbas, leader dell’ANP) è un ostacolo».

Nel 2018, divennero virali le immagini di alcune valigie contenenti milioni di dollari in contanti. Si trattava di fondi qatarioti destinati ad Hamas, prove di una strategia di finanziamento iniziata nel 2012 e difesa pubblicamente da Netanyahu anche in funzione di un indebolimento dell’ANP. Questa politica fu condannata da membri del suo stesso governo, tra cui figure come l’attuale vicepremier Naftali Bennet, e l’allora ministro della Difesa, Avigdor Lieberman, che abdicò in segno di protesta contro la linea pro-Hamas, affermando che in questo modo Israele stesse «alimentando un mostro».

Le dimissioni dei due ministri aprirono poi ad una crisi dell’esecutivo e alla creazione di un nuovo governo, che fermò solo temporaneamente i trasferimenti di fondi al movimento islamista. Dal 2021 nuove turbolenze governative hanno portato ad almeno sei crisi della politica interna, sottoponendo il Paese a tornate elettorali per almeno cinque volte negli ultimi tre anni e mezzo. In questo quadro ad alta tensione, la questione della controversa riforma della Giustizia voluta da Netanyahu – condannato più volte per reati fiscali – accusata di svuotare i poteri della Corte suprema e considerata dagli USA, e non solo, un attacco alla democrazia, assume un’importanza ancora più rilevante.

Il 1° gennaio 2024, una sentenza dell’Alta Corte ha respinto la parte chiave della riforma, quella sulla “clausola di ragionevolezza” sulle decisioni assunte dal governo che, approvata nel luglio scorso nel vivo delle proteste del movimento popolare, rischia di rinnovare la spaccatura all’interno della società israeliana. La stessa spaccatura che potrebbe aver avuto un ruolo nella decisione di Hamas di attaccare Israele, con buona parte dei riservisti, colonna portante delle IDF (le Forze armate israeliane), che minacciava di non presentarsi di fronte a un’eventuale chiamata alle armi.

Coordinamento a cura di Ciro Sbailò

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