Per una Geografia dei movimenti pro Palestina in Italia
- 6 Giugno 2024
Per capire, però, quale sia la geografia dei movimenti pro palestinesi in Italia, è necessario analizzare a quale posizione politica essi si ispirino, relativamente alla questione israelo-palestinese. I due grandi filoni ideologici riguardano la soluzione a uno Stato oppure quella a due Stati.
La prima è stata, storicamente, propria della sinistra internazionalista di ispirazione marxista e atea, soprattutto nel corso della seconda metà del Novecento. I sostenitori di questa linea auspicavano la costituzione di uno Stato laico e socialista, in grado di rappresentare le necessità di entrambi i popoli e di garantire la pace fra essi. Israele avrebbe dovuto almeno rinunciare al suo carattere di Stato Ebraico e essere capace di governare, in maniera paritaria, israeliani e palestinesi.
La soluzione a uno Stato venne sostenuta, ma con una declinazione meno ambiziosa, anche dall’UNSCOP (Comitato speciale dell’ONU sulla Palestina), prevedendo una Federazione composta da uno Stato ebraico e uno Stato arabo.
Ancora prima, però, la soluzione a uno Stato era propria delle fazioni nazionaliste che lottavano sia contro la parte avversa che contro il potere britannico, detentore del Mandato sulla Palestina in base alla Conferenza di Sanremo del 1920, con cui le quattro potenze vincitrici della Prima Guerra Mondiale si impegnavano a dare seguito alla Dichiarazione Balfour del 1917, ovvero favorire “la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico”. Questa Conferenza fu motivo scatenante della Terza Aliyah, ovvero della terza grande ondata migratoria ebraica (saranno 7 le Aliyah, con l’ultima conclusasi nel 1950, a seguito dell’instaurazione del comunismo negli Stati dell’Est Europa).
Sull’onda di questi eventi, varie organizzazioni cominciarono ad impegnarsi nella costruzione delle istituzioni necessarie al nuovo Stato ebraico: in maniera più moderata l’Haganah (“La Difesa”), costituita dall’Agenzia Ebraica (Organizzazione sionista, originariamente istituita nel 1923 per rappresentare la comunità ebraica in Palestina nell’epoca precedente il governo mandatario), che diverrà poi l’attuale Israel Defence Forces (IDF) e da cui sorgerà anche la prima brigata combattente sotto un vessillo con la Stella di David cioè la Brigata Ebraica che partecipò alla Resistenza italiana sotto il comando britannico. In maniera più violenta, tanto da essere considerate organizzazioni terroristiche dai britannici, il Lehi (“Combattenti per la Libertà d’Israele” conosciuto come Banda Stern) e l’Irgun (“Organizzazione Militare Nazionale”). Tutte e tre iniziarono ad agire a vari livelli per la realizzazione del progetto sionista: a proposito del sionismo, esso è un’ideologia politica il cui fine è l’affermazione del diritto alla autodeterminazione del popolo ebraico e il supporto a uno Stato ebraico in quella regione che, dal Tanakh e dalla Bibbia, è definita: “Terra di Israele”. Queste forze cominciarono a organizzarsi, da un punto di vista militare, dopo i Moti in Palestina del 1929, creando i presupposti del vantaggio militare strategico che caratterizzerà Israele per tutta la sua Storia.
Dalla parte opposta, il Gran Mufti di Gerusalemme Amin al-Husseini aveva le medesime aspirazioni, la creazione di uno Stato palestinese che comprendesse l’intero territorio della Palestina: islamista radicale, aderì all’organizzazione dei Fratelli Musulmani nell’anno della sua nascita, il 1928. Dal 1936-1939 fu riferimento durante la Grande Rivolta Araba contro l’immigrazione ebraica in Palestina che portò a diversi attacchi a quartieri e kibbutz ebraici, oltre che scontri con i contingenti britannici. In seguito a questi eventi i britannici emisero il Terzo Libro Bianco, una Legge che prevedeva una forte limitazione dell’immigrazione ebraica in Palestina.
Questa volta la reazione fu ebraica: l’Haganah si adoperò per favorire e organizzare l’immigrazione illegale ebraica e per organizzare manifestazioni contro gli occupanti inglesi, il Lehi e l’Irgun reagirono in maniera ancora più violenta, attaccando militarmente le postazioni britanniche. Subito dopo questi eventi il Gran Mufti di Gerusalemme rafforzò e ufficializzò la sua alleanza con le forze fasciste e naziste della Seconda Guerra Mondiale dichiarando, il 10 maggio 1941, Jihad contro i britannici: esso sperava che Hitler avrebbe potuto portare la “soluzione finale” della questione ebraica anche in Palestina, favorendo la nascita di uno Stato palestinese grazie al genocidio ebraico.
Occorre dire che anche il Lehi, che aspirava alla creazione di uno Stato totalitario ebraico e di cui fu comandante anche Yitzhak Shamir, poi Presidente israeliano per due volte, propose un’alleanza alla Germania nazista: la necessità di Hitler di sfollare gli ebrei dall’Europa sarebbe potuta divenire compatibile con l’idea di una ricollocazione della popolazione ebraica in Palestina a discapito, questa volta, della popolazione araba. Nonostante ciò, solo l’alleanza fra il Gran Mufti e le forze nazi-fasciste si concretizzò realmente, costituendo il “Gruppo Formazione A” del Regio Esercito Italiano e la 13° Waffen-Gebirgs-Division delle SS “Handschar”.
Fra la fine della guerra e la Risoluzione ONU del 1948 che ha sancito la divisione della Palestina fra i due Stati, uno ebraico e uno arabo, che sarebbero dovuti nascere, il Lehi e l’Irgun intensificarono le loro attività terroristiche: a novembre del 1944 il Lehi uccise Lord Moyne, esponente del Governo britannico a Il Cairo, azione ritenuta uno schiaffo a Churchill. Nel 1946 Irgun e Lehi attuarono un attentato al King David Hotel di Gerusalemme, provocando 91 morti di varie nazionalità. Il 31 ottobre dello stesso anno i due gruppi attaccarono l’Ambasciata Britannica a Roma, provocando due vittime italiane. Nell’aprile del 1948 i due gruppi attaccarono il villaggio di Deir Yassin a ovest di Gerusalemme, le vittime saranno 100, i superstiti abbandoneranno l’insediamento.
Il 17 settembre 1948 venne assassinato il mediatore delle Nazioni Unite, lo svedese conte Folke Bernadotte, avente il compito di mediare il futuro assetto politico e territoriale della regione. Il 29 novembre 1947, il Piano di partizione della Palestina elaborato dall’UNSCOP fu approvato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, a New York. La risoluzione 181 sancì la spartizione della Palestina: attribuì il 56,47 % del territorio a 500.000 ebrei e 325.000 arabi, il 43,53 % del territorio a 807.000 arabi e 10.000 ebrei, la tutela internazionale su Gerusalemme con circa 100.000 ebrei e 105.000 arabi, prescrizioni e diritti vari. La gran maggioranza degli arabi che vivevano in Palestina e la totalità degli Stati arabi già indipendenti respinsero il Piano. Dal principio essi rifiutarono qualsiasi divisione della Palestina mandataria, e reclamarono il Paese intero.
La maggioranza degli ebrei di Palestina accettò la partizione. Vi fu una forte opposizione però da parte dei nazionalisti più accesi, in particolare (ma non esclusivamente) della destra. L’Irgun e il Lehi criticarono vigorosamente sia la partizione sia il controllo internazionale su Gerusalemme. La maggioranza degli ebrei sionisti si rallegrò tuttavia del fatto che si sarebbe ottenuta la nascita di un loro Stato indipendente. Il 14 maggio del 1948 venne dichiarata unilateralmente la nascita dello Stato di Israele e il giorno seguente le truppe britanniche si ritirarono definitivamente dai territori del Mandato. Sia il Lehi che l’Irgun si sciolsero in brevissimo tempo dopo l’indipendenza, andandosi a integrare nell’Haganah, che costituì le attuali IDF.
Da allora, i confini stabiliti nella Risoluzione del 1948 saranno ridisegnati dalle guerre arabo israeliane (1948-49, 1956, 1967, 1973), nonché dalle conseguenze di una ulteriore Risoluzione dell’Onu, quella del 1967, senza mai che fosse dichiarata effettivamente l’indipendenza di uno Stato palestinese. La questione dei coloni e le ambizioni di vittoria assoluta, da ambo le parti, hanno inasprito progressivamente i rapporti fra israeliani e palestinesi, fino a sfociare nelle tre Intifada (delle pietre, di Al Aqsa, dei coltelli) e, infine, nell’attacco del 7 ottobre 2023.
Ritornando alle soluzioni a uno e a due Stati, le posizioni politiche si sono ammorbidite solo in parte durante i decenni: mentre le forze riferibili alla tradizione del sionismo socialista (caratterizzato dall’idea che uno Stato ebraico poteva essere creato solo con gli sforzi della classe operaia ebraica, insediandosi in Palestina e fondando uno Stato attraverso la creazione di una società ebraica progressista, con kibbutzim e moshavim rurali e un proletariato urbano ebraico), che hanno governato Israele nei primi decenni della sua Storia, sono tendenti a una soluzione a due Stati che possa permettere a Israele di superare definitivamente i problemi di sicurezza che ne hanno caratterizzato l’esistenza, le forze riferibili alla tradizione del sionismo revisionista (da cui derivavano il Lehi, l’Irgun e, successivamente, la destra israeliana, caratterizzato per l’adesione a idee di destra in parte influenzato dal fascismo a cavallo tra gli anni ‘30 e ‘40 del Novecento) sono ancora attaccate, più o meno esplicitamente, a quella idea di “Grande Israele” ben riassunta da quanto dichiarato dal Comandante del Lehi e futuro fondatore del Likud, Menachem Begin, all’indomani della Risoluzione ONU del 1948: «La divisione della Palestina è illegale. Non sarà mai riconosciuta. La Grande Israele sarà ristabilita per il popolo di Israele. Tutta. E per sempre».
Allo stesso modo, si è assistito un progressivo ammorbidimento delle posizioni palestinesi sulla questione, nonostante la spaccatura relativa alle due possibile soluzioni sia evidente, da un punto di vista geografico, nei territori palestinesi: mentre Fatah, forza politica ad ispirazione laica e socialista alla guida dell’Autorità Nazionale Palestinese e al governo della Cis-Giordania, persegue i negoziati necessari a creare i presupposti per la soluzione a due Stati, Hamas, forza islamista radicale con appoggio di fazioni minori di ispirazione islamista o marxista, persegue la soluzione a uno Stato, in questo caso arabo, islamico e governato da un Califfato con capitale Gerusalemme (con conseguenza ovvia, la necessità dell’esodo ebraico dalla Palestina).
Ebbene, i movimenti di solidarietà che si sono sviluppati in Occidente hanno radice anch’essi in queste differenti posizioni politiche: le frange più morbide di questi movimenti e con tendenze laiche e democratiche, manifestano l’idea di una soluzione definitiva che possa garantire l’autodeterminazione e l’indipendenza dei due popoli all’interno, però, di confini ormai difficilmente individuabili e mai comunemente accettati fra le parti (problema alla base della mai avvenuta dichiarazione d’indipendenza palestinese). Le frange più estreme, invece, sono ancora tendenti all’idea di illegittimità totale delle pretese altrui. Alcune piazze pro palestinesi esternano slogan come: “from river to the sea” che significa “dal mare (Mediterraneo) al fiume (Giordano)” il che palesa un’ambizione territoriale palestinese che comprende tutto il territorio della regione, compreso quello israeliano e a maggioranza ebraica. Ciò deriva dall’idea dello Stato d’Israele come entità illegittima, creata ad hoc in Palestina tramite l’immigrazione ebraica su territori spettanti di diritto ai palestinesi, tanto più perché Terra Santa che, secondo forze come Hamas, deve essere governata secondo le regole dettate dall’Islam.
Infine, è ultimamente in voga nel dibattito mediatico il termine “antisionismo”. Tale termine risulta piuttosto ambiguo: se l’antisionismo si sostanzia nell’idea di voler contrastare un ulteriore espansionismo ebraico nei territori storicamente palestinesi, al fine di tutelare e favorire la possibilità della nascita di uno Stato palestinese, allora esso si può inquadrare in una semplice forma di anti-colonialismo o anti-imperialismo moderno. Se invece, attraverso un’interpretazione letterale, per antisionismo si intende l’opposizione all’idea della creazione di uno Stato ebraico con una conseguente delegittimazioni di esso, delle sue istituzioni e di tutti i suoi cittadini (coloni o non), allora non ci si può esimere dal constatare che l’antisionismo così inteso rappresenta una mera forma di antisemitismo.
A cura di Andrea Cafiero