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Guerra di numeri a GAza: l'ONU rivede verso il basso le vittime

Uno, nessuno o centomila? I numeri sono diversi, ma la domanda pirandelliana inquadra bene uno degli sviluppi più clamorosi della guerra di Gaza, non ultimo per la lentezza con la quale è emersa e si sta diffondendo. Si tratta della revisione verso il basso del numero delle vittime civili palestinesi, emersa sulla stampa l’11 maggio ma in realtà pubblicata dall’Office for the Coordination of Humanitarian Aid (OCHA) delle Nazioni Unite l’8 maggio. In sintesi, prima il numero delle donne è sceso da oltre 14.500 a 7.797 e poi quello dei “bambini” è sceso da oltre 9.500 a 4.959. Il totale di 34.844 è ora indicato come “vittime riferite”, divise tra 24.686 “identificate” e “oltre 10.000 riferite mancanti o sotto le macerie”: una differenza di un terzo sul totale, ma addirittura del 42% tra identificate e non.

Dal punto di vista dell’analisi, questa è forse la notizia più importante uscita da Gaza dalla strage del 7 ottobre 2023. Il perché è presto detto.

Parte non piccola dell’odierno isolamento di Israele è dovuto al successo della strategia di comunicazione di Hamas, che è riuscita a imporre l’idea e la terminologia del “genocidio” ai danni della popolazione palestinese. Poco importa che l’uso sia infondato sia come terminologia (non vi è alcun programma di eliminazione su base etnico-religioso) sia come quantità (la popolazione di Gaza è, semmai, in fortissima crescita). L’importante è che il messaggio sia accettato universalmente, come fatto notorio sul quale fondare proteste, boicottaggi e in ultima analisi presentare Hamas non più come l’aggressore del 7 ottobre ma la vittima dei mesi successivi.

In astratto, si può anche concepire che dal punto di vista di Hamas – che, è superfluo dirlo, non coincide necessariamente con quello dei palestinesi, così come quello di Israele non sia sovrapponibile con quello di Netanyahu – questa strategia abbia un senso. Qualche mese fa, il Wall Street Journal, ripreso anche dalla stampa italiana (p. es. Il Giornale del 29 febbraio) ha riferito di un messaggio nel quale il capo di Hamas Yahya Sinwar sottolineava l’utilità per la causa di avere un alto numero di vittime civili per propagandare l’immagine degli “israeliani cattivi”. Di qui il continuo flusso – anzi, un vero e proprio bombardamento mediatico – di numeri in costante crescita tendenti a dimostrare che l’IDF spara nel mucchio contro i civili.

Per mesi gli uffici dell’ONU, le ONG e i media occidentali, che a Gaza dipendono in larghissima misura da fonti arabo-palestinesi, hanno ripreso acriticamente i dati diffusi dalla Gaza Media Organization (GMO, l’ufficio stampa di Hamas), che a sua volta sosteneva di utilizzare quelli forniti dal Gaza Ministry of Health (MoH, la struttura sanitaria di Hamas). Nemmeno il clamoroso falso dei 600 morti in un presunto attacco a un ospedale il 18 ottobre 2023, subito dimostrato essere stato un razzo palestinese finito in un piazzale della struttura, con pochissime vittime, è servito a far scattare l’allarme sulla strumentalizzazione dei dati.

Alla diffusione dei numeri MoH/Hamas ha contribuito anche il mancato contrasto da parte dell’IDF, che come tutte le forze armate del mondo è maggiormente interessata a calcolare le perdite militari dell’avversario (e dunque stimarne la capacità di continuare a resistere) e quelle proprie (per motivi di morale interno, ma anche per adempiere ai propri obblighi verso familiari e congiunti). E poiché il totale dei miliziani uccisi era inferiore al totale generale, i commentatori frettolosi non vedevano alcuna contraddizione. 

In realtà, gli analisti più avveduti avevano notato da tempo incongruenze di vario genere. La prima e più clamorosa era la mancata differenziazione tra combattenti e popolazione civile, come a sottolineare l’identità tra Hamas e popolo oppure la barbarie di attacchi indiscriminati. Molte perplessità destava anche l’uso della categoria children (“bambini”) per indicare i minorenni, compresi gli adolescenti che spesso fanno parte delle milizie di Hamas. Le prime critiche statistiche sulla distribuzione e coerenza interna dei dati MoH/Hamas iniziavano ad apparire nel dicembre 2023, ma provenendo da parte ebraica (non necessariamente israeliana), trovavano poco spazio sui media. 

Il silenzioso cambio di metodologia da parte dell’OCHA non risolve tutti i problemi, in primo luogo perché continua a non distinguere tra combattenti e civili. Come alcuni analisti hanno fatto notare, l’IDF stima il numero dei miliziani uccisi in oltre 10.000, il che significa un rapporto non oltre 1,2 miliziani per civile. Si tratta di un valore eccezionalmente basso nei conflitti urbani, dovuto in parte non piccola alle precauzioni prese da IDF, che annuncia ogni attacco su più canali (telefonate, volantini, altoparlanti etc), accettando di perdere il vantaggio della sorpresa per ridurre le vittime.

Un altro problema metodologico riguarda la qualità dei dati. Se Gaza è davvero distrutta, se le comunicazioni sono difficili (tanto che Hamas avrebbe difficoltà a dimostrare quanti ostaggi sono ancora in vita), se la popolazione è in fuga, la rapidità con la quale i dati vengono diffusi desta più di una perplessità. Nel caso dell’ospedale, le “500” vittime furono “contate” in poco più di due ore, destando non poche perplessità negli addetti ai lavori. Si aggiunga che la popolazione ha un forte incentivo ad esagerare le perdite per percepire le indennità erogate da Hamas, spesso unico mezzo di sostentamento ora che è impossibile lavorare oltre confine. 

Per concludere, il problema non è l’inattendibilità delle statistiche quanto la rinuncia dei media e degli analisti a svolgere il ruolo di semaforo o cane da guardia della qualità dell’informazione, sino a  trasformarsi in amplificatori di propaganda. Fermo restando che anche un solo morto innocente è una tragedia, su questo punto sarebbe opportuna una riflessione deontologica. Perché è chiaro che nessuna analisi può essere valida se fondata su dati inattendibili (o almeno la cui inattendibilità non sia stata ampiamente descritta agli utilizzatori). Garbage in, garbage out.

Coordinamento a cura di Ciro Sbailò

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