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7 ottobre: conseguenze di medio-lungo termine sull’infanzia e adolescenza

In astratto nessun atto guerra è una decisione sostenibile, perché, ad essa, segue inevitabilmente un dopoguerra di miseria, che dura un certo numero di anni, con conseguente danno alle fasce più giovani della popolazione. È così che si condizionano intere esistenze di persone che non hanno potuto scegliere. Purtroppo, un atto di guerra può essere necessario specie quando si tratta, come nel caso della reazione israeliana all’attacco di Hamas, di difendere la propria esistenza, non solo politica ma anche ideologica.

Nello specifico, la guerra sta avendo conseguenze gravissime sui bambini e gli adolescenti israeliani e palestinesi. Secondo Save the Children, organizzazione a tutela dell’infanzia, a parlare sono i numeri: ci sarebbero più di 610mila bambini intrappolati a Rafah, in un’area pari a meno di un quinto della superficie totale dell’enclave, mentre gli attacchi israeliani aumentano. Recente il raid nell’ospedale di Gaza: le forze speciali israeliane sono entrate anche nel reparto maternità, alla ricerca di ostaggi, vivi o morti.

Secondo l’Onu il bombardamento indiscriminato di aree densamente popolate potrebbe costituire un crimine di guerra. La tremenda situazione che si sta creando a Gaza (fermo restando che Israele aveva ed ha il diritto di difendersi, rispettando però i principi di umanità) rischia di compromettere la stabilizzazione di una regione, perché è facile per il jihadismo fare proseliti tra i bambini che in guerra hanno raccolto qua e là i pezzi dei cadaveri dei loro genitori e dei loro fratelli.

Tutto però inizia il 7 ottobre con l’attacco terroristico di matrice antisemita; d’altro canto, diversi bambini israeliani sono ancora oggi ostaggi nelle mani di Hamas. Non è tutto. Nell’ambito del radicalismo islamico fare leva  sul modello umanitario occidentale per diffondere terrore e morte è uno schema consolidato: usare i bambini imbottiti di esplosivo verso obiettivi civili e militari, sfruttare ospedali e ambulanze per nascondere  e trasportare munizioni, sono tutte tattiche utili per ottenere un vantaggio ingiusto e odioso sull’Occidente, che riconosce alla persona umana in quanto tale il ruolo di valore primario dell’ordinamento giuridico e che quindi ripudia queste strategie. Usare i bambini come arma di guerra o come ostaggi non è democratico, non è umano. L’Occidente non lo fa e non lo dovrà mai fare. 

Eppure, sta accadendo ai confini dell’Europa: sulla riva Sud del Mediterraneo, a Gaza, e anche nel conflitto russo-ucraino (il mandato d’arresto internazionale contro Putin è stato spiccato proprio per le deportazioni dei bambini ucraini).

“Dopo che le autorità israeliane hanno detto alla gente di Gaza che Rafah è un luogo sicuro in cui fuggire, l’80% della popolazione – di cui metà sono bambini – è ora stipata in quest’area, molti senza muri o tetti che possano ripararli e proteggerli” ha dichiarato Jason Lee, direttore di Save the Children per i Territori palestinesi occupati, che precisa: “Gran parte della comunità internazionale finora ha fallito nel tentativo di proteggere i minori. Siamo di fronte ad una grande prova. Rispetteranno il diritto internazionale e il diritto alla vita dei bambini?”.

E torniamo quindi al concetto di sostenibilità delle decisioni, di prezzi che non devono essere pagati da chi quelle decisioni non le prende. Secondo Save the Children “I bambini non causano o iniziano le guerre, ma è innegabile che ne siano le vittime più vulnerabili. Proprio ora nel mondo, oltre 468 milioni di loro vivono in una zona di conflitto. E la situazione è destinata a peggiorare con il protrarsi delle ostilità in Ucraina e in altri Paesi come i Territori Palestinesi Occupati, Israele, lo Yemen, la Siria e la Repubblica Democratica del Congo”. Anche i piccoli che sopravvivono rischiano di essere feriti o abusati da responsabili che, in tempi di guerra, difficilmente saranno rintracciati e puniti.

 

Per quanto riguarda Israele, da Netanyahu è arrivato un secco no al piano di pace di Usa e Paesi arabi, che prevederebbe uno Stato palestinese con capitale Gerusalemme Est e sicurezza e governo uniti per Cisgiordania e Gaza; Hamas, d’altro canto, non intende rilasciare ostaggi neanche in cambio di 1500 detenuti palestinesi, se non c’è un cessate il fuoco. Due no che hanno un peso su quelli che oggi sono bambini e che si stanno vedendo rubare il presente ed ipotecare il futuro. Nella strategia di Hamas, che ha eliminato a Gaza ogni forma di dissenso, ha represso la libertà di stampa e condizionato l’Università, con l’obiettivo di distruggere Israele e creare un solo stato islamico, semplicemente i bambini non contano in quanto tali, così come non contano nelle dittature e per i gruppi terroristici in generale: possono essere al massimo utili strumenti di guerra. 

 

Bambini che hanno avuto un’infanzia segnata dal dolore e dalla morte saranno adulti fragili, facilmente strumentalizzabili o, peggio ancora, adulti carichi di rancore e pronti a restituire le morti che hanno subito, che è ciò che vuole Hamas. Notoriamente, è facile comandare chi non crede in niente; è più facile convincere chi non ha più niente da perdere ad uccidersi per dare la morte. I bambini stremati oggi a Gaza saranno domani le perfette reclute per un esercito di un gruppo terroristico.

Israele invece è una democrazia: la riflessione sulla sostenibilità delle sue decisioni per i piccoli di oggi, come molti esponenti della società israeliana chiedono, sembra doverosa. Come dichiarato da Blinken ““troppi palestinesi sono stati uccisi; troppi hanno sofferto nelle ultime settimane. E vogliamo fare tutto il possibile per prevenire loro danni e massimizzare l’assistenza che arriva loro”.

Non ci si può non chiedere quale ruolo hanno i bambini in questa tragedia, che potrà incidere sulla loro formazione e, inevitabilmente, sulle dinamiche politico sociali della regione.

 

Coordinamento a cura di Ciro Sbailò

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