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75 anni di Nato, 75 anni di Italia con l'Occidente

«To keep the Soviet Union out, the Americans in, and the Germans down.» Così Lord Ismay definì la NATO, l’alleanza difensiva tra dodici nazioni occidentali nata il 4 aprile 1949 della quale fu il primo segretario generale. A 75 anni dalla sua fondazione, restano validi almeno due obbiettivi su tre. La minaccia russa attiva a est ha contribuito a far crescere i membri a 32. La corrente isolazionista che invoca lo sganciamento degli Stati Uniti dall’Europa è più che mai vocale. Solo il timore del ritorno di una Germania militarista e aggressiva non è più all’ordine del giorno, sostituito dalla delusione per l’ambigua incertezza tra le affermazioni e la mancanza di atti concreti. È in questo contesto ricco di sfide all’ordine e alla pace internazionale che il Patto Atlantico festeggia i tre quarti di secolo.

La NATO – o meglio, il Patto Atlantico, al quale solo un anno dopo seguì lo strumento operativo – nasceva come alleanza difensiva, imperniata sulla promessa di difesa reciproca contenuta nell’articolo 5: « Le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell’America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti.» Era una misura che nasceva dall’esperienza, allora recentissima, della strategia del carciofo con la quale Hitler aveva pian piano occupato l’Europa centro-orientale, fino a mettere Gran Bretagna e Francia con le spalle al muro. Fin dall’inizio, l’Alleanza sottolineò la propria natura difensiva. «Nell’intera storia, questa è la prima volta che è stato creato un comando alleato in tempo di pace, per preservare la pace anziché per fare la guerra», disse Dwight Eisenhower, richiamato in servizio nel 1950 dalla Columbia University, dov’era diventato rettore, per servire quale primo Comandante Supremo Alleato in Europa (SACEUR). 

Dietro la nascita dell’Alleanza stava il graduale deteriorarsi dei rapporti all’interno dell’alleanza che aveva sconfitto Hitler, le cui diverse interpretazioni degli equilibri sanciti a Yalta non tardarono a palesarsi. Da un lato la liberal-democrazia paternalistica degli USA, dall’altro il controllo occhiuto del comunismo sovietico; da un lato la persuasione con l’esempio, dall’altro la repressione interna e le pulsioni rivoluzionarie dei “partiti fratelli”. Fu così che dal “telegramma lungo” di Kennan al discorso di Churchill a Fulton, dalla guerra civile in Grecia alle defenestrazioni di Praga,  dal rifiuto sovietico del piano Marshall al blocco di Berlino, l’amministrazione Truman si sentì costretta a garantire la libertà di un’Europa Occidentale ancora in ginocchio per le distruzioni della guerra. 

Per la prima volta, i paesi occidentali non competevano tra loro per una supremazia continentale ma si preparavano ad arginare un avversario che proponeva un modello politico, sociale e culturale radicalmente alternativo. Insieme al Piano Marshall, il Patto Atlantico divenne presto un pilastro dell’identità e della collaborazione continentale, talvolta in anticipo sui tempi di maturazione dell’idea europea. In questo senso, l’OECE, uno degli strumenti di collaborazione economica del Piano Marshall, fu l’anticamera della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, incubatore della futura Comunità Economica Europea. Contro tutto questo si pose, fin dall’inizio, l’Unione Sovietica con il suo codazzo di partiti comunisti generosamente sovvenzionati. Il nesso democrazia-capitalismo, il caos creativo del mercato, persino la libertà di religione erano altrettanti avversari dell’egemonia del Partito, della pianificazione centrale, dell’ideologia socialista.

Contro la NATO si scatenò subito la campagna d’aggressione propagandistica che ancora risuona, in particolare nei paesi ove la tradizione comunista è più forte. Uno di questi fu l’Italia, per la quale l’adesione alla Patto Atlantico confermava la scelta occidentale di De Gasperi uscita vittoriosa dalle elezioni del 18 aprile 1948. Un secondo significato, oggi perlopiù trascurato, fu quello del rientro  sulla scena internazionale dalla quale l’Italia era stata già due volte esclusa: prima nel 1945, quando le fu negato l’ingresso nella neonata ONU, poi nel 1947, quando il trattato di pace di Parigi punì insieme l’aggressore nel 1940-41 e lo sconfitto nella Seconda guerra mondiale. Non a caso a Parigi De Gasperi aveva esordito «Tutto è contro di me, salvo la vostra personale cortesia». Non a caso l’ingresso nell’ONU giunse solo nel 1955. Non a caso, l’ingresso nella NATO vedeva contraria la Gran Bretagna, che temeva il rientro in gioco di un potenziale concorrente nel Mediterraneo.

Con la NATO tutto questo fu spazzato via. Decaddero le clausole più restrittive di Parigi. L’Italia tornò nel mondo occidentale al quale aveva sempre appartenuto. Si tornò a immaginare un ruolo internazionale, vuoi verso l’Africa (con il neo-atlantismo di Pella, antenato del “Fronte Sud” e del “Piano Mattei”) vuoi attraverso il segretariato generale NATO di Manlio Brosio (1964-1971) e persino il sogno di un deterrente nazionale. 

Nel 1989-91 la caduta del Muro di Berlino e dell’URSS fece venir meno molte delle sue ragioni d’essere, così come la graduale trasformazione della NATO da alleanza difensiva in strumento operativo dell’Occidente ha riportato d’attualità le tesi dei suoi avversari politici. Lo stesso «Keeping the USA in» aveva riacquistato senso di fronte al possibile disimpegno USA, rinvigorito ancor prima della ventata isolazionista di Donald Trump. Solo l’aggressione russa all’Ucraina ha rivitalizzato un’alleanza che da tempo scontava una forte crisi d’identità. Dopo 75 anni, le lancette hanno chiuso il cerchio per tornare al punto di partenza.

Se il futuro dell’Alleanza è difficile da pronosticare, questo 75° anniversario per l’Italia è comunque uno stimolo alla riflessione sugli snodi della storia nazionale, sulla traiettoria dell’identità geopolitica, sulla differenza tra rappresentazioni da talkshow e concretezza delle relazioni internazionali.

 

A cura di

Gregory Alegi – Professore a contratto di Studi Strategici presso UNINT

 

Coordinamento a cura di Ciro Sbailò

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