Una finestra temporale stretta per salvare l’Europa dalla marginalità politica
- 18 Giugno 2024
Per comprendere gli sviluppi attuali riguardo alla difesa europea, è opportuno partire da una premessa storica fondamentale. Non si può, infatti, comprendere il nostro tempo né immaginare sviluppi futuri, senza una solida conoscenza del passato. L’idea di Europa nasce negli anni immediatamente successivi alla II Guerra Mondiale, immaginata e costruita pensando, principalmente, al forte bisogno di ricostruzione economica. Alla radice c’è, quindi, l’intenzione di rimuovere quegli elementi di competizione che avevano determinato lo scoppio del conflitto, archiviando i primi 45 anni del Novecento. Su questi sentimenti fioriscono i primi tentativi di stabilire una politica comune in materia di difesa e sicurezza e successivamente al Trattato di Parigi, firmato nella capitale francese dai sei Paesi membri della CECA il 27 maggio 1952, nasce la Comunità Europea di Difesa (CED). Il fine ultimo dell’organizzazione traspare in maniera evidente dalle parole di Robert Schuman, che, parlando della CED, disse: «La Comunità propone lo stesso obiettivo ad ogni partner, quello che la filosofia di San Tommaso chiama ‘il bene comune’. Questo sussiste in modo estraneo a qualsiasi motivazione egoistica. Il bene di ciascuno è il bene di tutti e viceversa». Se si considerano le difficoltà incontrate dal singolo Stato nell’affrontare le sfide presenti e future, come ben evidenziato dalle complessità emerse nella fase pandemica, son chiaramente parole attuali.
Proseguendo nella narrazione storica, nonostante la notevole spinta iniziale data alla creazione della CED, i tempi non sono ancora maturi per un passo di tale portata, e ciò porta alla mancata ratifica del trattato nel 1954 da parte del parlamento francese. Bisognerà attendere il crollo del muro di Berlino e gli anni Novanta per riprendere il lungo cammino della difesa comune, già immaginato da Altiero Spinelli. È, infatti, con il Trattato di Maastricht del 1992 che si imprime un’accelerazione al processo europeo che porterà alla nascita dell’euro e porrà anche le basi della Politica Estera di Sicurezza e Difesa Comune (PSDC). Sempre nel 1992 i Paesi aderenti all’Unione europea occidentale (UEO) approvano la Dichiarazione di Petersberg, con la quale si impegnano a mettere a disposizione dell’UE le proprie forze militari per portare a termine tutta la gamma di missioni, dalla gestione delle crisi all’assistenza umanitaria, passando per la peace-enforcement, intesa come imposizione forzata della volontà internazionale a una delle parti in conflitto (a tal proposito si consideri la guerra di Corea).
Gli anni Novanta furono particolarmente intensi e videro l’affermarsi del multilateralismo ed il superamento di tradizionali posizioni nazionali (in particolare lo scetticismo britannico e francese). Riguardo alla posizione inglese, sotto la spinta del Primo Ministro Tony Blair, la resistenza si trasformò in sostegno alla concezione multilaterale e portò alla dichiarazione congiunta con il Presidente francese Jacques Chirac al vertice bilaterale di Saint-Malo, svoltosi il 3 e 4 dicembre 1998. In quell’occasione, si affermò che l’UE «deve avere la capacità di intraprendere azioni autonome, supportate da forze militari credibili, gli strumenti per decidere di usarle e la relativa preparazione, e ciò allo scopo di far fronte alle crisi militari». Successivamente, nel dicembre del 1999, il Consiglio europeo di Helsinki decise all’unanimità di istituire una forza europea di intervento rapido, capace di muovere fino a 60.000 uomini entro il 2003.
Il 2003, per quanto riguarda il settore della difesa comune, è stato un anno di svolta. Infatti, nel marzo di quell’anno, prendevano corpo gli accordi denominati ‘Berlin Plus’, che hanno fornito un impulso importante alle relazioni operative tra UE e NATO.
Lo scopo era di consentire all’UE di avvalersi delle capacità di Comando e Controllo della NATO e di utilizzarne le risorse – in termini di strutture, personale, mezzi e capacità di pianificazione – per avviare proprie missioni di gestione delle crisi. Proprio ‘Berlin Plus’ permise il dispiegamento della prima reale missione dell’UE, l’Operazione ALTHEA in Bosnia-Erzegovina, ottimo esempio di cooperazione tra UE e NATO, in un quadrante, quello dei Balcani, ancora oggi denso di criticità.
Attualmente, l’UE è impegnata militarmente in Africa, Asia ed Europa con 6 missioni, di cui 3 esecutive (con compito di ingaggio) e 3 non esecutive (di addestramento). Oltre alla citata operazione ALTHEA in Bosnia-Erzegovina, spostando lo sguardo verso sud ed in particolare al Mediterraneo, troviamo IRINI, probabilmente la più importante delle operazioni UE, che ha come compito principale quello di implementare l’embargo delle Nazioni Unite contro il traffico d’armi e che, al tempo stesso, rappresenta una piattaforma di capacità impiegabili per la gestione della crisi libica. C’è poi l’operazione ATALANTA, nel golfo di Aden e nell’Oceano Indiano, che negli ultimi 10 anni ha ottenuto ottimi risultati nella protezione dei trasporti di aiuti umanitari del World Food Programme e contro la pirateria. Oggi, in quell’area, con il probabile futuro ampliamento della Presenza Coordinata Marittima (Coordinated Maritime Presence) allo stretto di Hormuz, si intende fissare ‘il punto di saldatura’ con le iniziative multilaterali nell’Indo-pacifico, al fine di preservare gli interessi degli Stati Membri e della stessa Unione nelle rotte degli approvvigionamenti energetici e dei flussi commerciali da e per l’Oriente. In ragione di ciò è prevista una revisione, che dovrebbe determinare un irrobustimento dei mandati delle operazioni al fine di offrire un’importante piattaforma per le cooperazioni degli Stati terzi presenti nell’area.
Le missioni non esecutive di addestramento, invece, interessano il Mali, la Repubblica Centrafricana e la Somalia. Sono nate con l’obiettivo specifico di fornire addestramento alle forze armate locali nell’ambito del capacity building, asset fondamentale nelle politiche comuni di difesa e sicurezza. Anche per le training mission si procederà alla revisione dei mandati con l’ambizione di poter operare nell’ambito dell’Institutional capacity building ed advisoring per le diverse articolazioni del governo.
È importante sottolineare come, sulla base delle lezioni apprese in Afghanistan e Iraq, in queste missioni di addestramento è stato introdotto il compito di accompany (a fianco dei più noti train, advice e assist). Infine, recentemente è stata approvata una training mission in Mozambico che si dispiegherà a partire da novembre 2021. L’Unione europea ha compreso che in questo momento storico, iniziato a partire dal 2011 dopo Unified Protector in Libia, la NATO si è concentrata sulla difesa collettiva lasciando ampi spazi di intervento. Pertanto, ha timidamente iniziato a concentrare i propri sforzi sul Capacity Building, inteso quale processo complessivo volto ed aiutare i Paesi in crisi a rimettersi in piedi, per operare in modo autonomo, supportandoli da un punto di vista non solo militare, ma anche in termini di sviluppo economico e di ricostruzione degli apparati istituzionali, in un’ottica di breve e lungo periodo. Uno sforzo, dunque, rivolto al continente africano e principalmente, ma non solo, alla regione del Sahel, frontiera meridionale dell’Europa, bersaglio delle azioni della compagnia militare privata russa Wagner, longa manus della politica estera del Cremlino. La Russia, principale minaccia che la NATO identifica sul fianco est, ha intrapreso da qualche anno una serie di iniziative assertive per avvolgere l’Europa dal fianco sud, lasciato sguarnito dall’Alleanza atlantica. Faccio riferimento alla crescente presenza di unità navali e sommergibili nel Mediterraneo, allo schieramento in una notte di 1.000 operatori delle Spetsnaz in Siria che hanno cambiato le sorti del presidente Assad, all’occupazione di basi aeree e navali nella stessa Siria e, da lì, agli interventi – palesi e non – in Libia, nella Repubblica Centrafricana e ora in Mali, con il dispiegamento di forze aeree e di proxy come la suddetta Wagner. Alla presenza russa, si aggiunge quella cinese che ha preso a penetrare il continente africano, partendo dalla base di Gibuti, con una impressionante rete infrastrutturale e di iniziative invasive di partenariato volte prima a fidelizzare e, subito dopo, a condizionare profondamente i governi locali per sfruttarne debolezze endemiche e risorse fondamentali.
Tutto questo è una sfida per l’Unione europea, che al momento dispone di tutti gli strumenti necessari per affrontarla, anche se non in modo compiuto. Questi sono il potere economico, quello politico, quello informativo e infine il militare, dei quali, tuttavia, è necessario un uso combinato per il dispiegamento effettivo di tutti gli altri. Su questi presupposti, un ulteriore passaggio decisivo avviene nel 2007 con il Trattato di Lisbona dove, per la prima volta, viene prevista la possibilità che un gruppo di Paesi possa dar vita ad una cooperazione strutturata permanente nel settore della difesa. Meccanismo che è alla base della decisione dell’11 dicembre 2017, con la quale il Consiglio istituisce la PESCO, la Cooperazione Strutturata Permanente. Grazie alla volontà dei Paesi membri di supportare le missioni dell’UE e di colmare le carenze nel medio termine, l’Unione ha avviato una serie di iniziative operative, strutturali ed industriali che interessano diversi archi temporali; ossia iniziative che produrranno i propri effetti nel breve, medio e lungo termine. Ne conviene che è fondamentale, vista la complessità del processo decisionale, che lo sforzo di coerenza tra le varie iniziative rappresenti una condizione indispensabile.
I principali passaggi che costituiscono e generano le attuali iniziative europee sono molteplici. I primi a essere definiti per colmare i gap principali sono gli Obiettivi di capacità ad alto impatto (HICG), che dovrebbero essere considerati una guida per i processi nazionali di pianificazione della difesa, in linea con gli sforzi più generali, per migliorare la cooperazione in materia di difesa in Europa. Successivamente, c’è la Coordinated Annual Review on Defence (CARD), che offre ai Paesi uno strumento per aumentare la coerenza tra i loro piani nazionali di difesa in una prospettiva europea, attraverso una mappatura delle carenze capacitive e una conseguente ottimizzazione degli investimenti. È un meccanismo molto valido nella misura in cui Paesi hanno fiducia dello stesso, evidenziando i propri deficit e possibilità. In seguito, come detto in precedenza, si ha la Cooperazione Strutturata Permanente (PESCO), volta a creare una maggiore integrazione della componente sicurezza e difesa realizzando sinergie tra lo sviluppo delle capacità militari e quelle industriali, attraverso progetti concreti a cui aderiscono 25 dei 27 Paesi Membri e il supporto nel breve e medio termine alle missioni ed operazioni CSDP. Infine, vi è il Fondo Europeo di Difesa (EDF), che ad oggi può contare su un budget di 8 miliardi, con lo scopo di fornire un sostegno finanziario sia alle attività nel campo della ricerca e sviluppo sia a quelle più direttamente finalizzate all’acquisizione di capacità militari, gettando le basi affinché l’industria della difesa dell’UE mantenga in Europa il know-how. Il meccanismo di accesso al Fondo ha come principio base la cooperazione europea, ponendo quale requisito imprescindibile la partecipazione di almeno tre soggetti industriali appartenenti a tre diversi Stati membri. A questa serie di iniziative è da aggiungere che nel giugno 2020 il Consiglio ha formalmente invitato l’Alto Rappresentante a sviluppare, in stretta coordinazione con gli Stati membri, una Bussola strategica – Strategic Compass: un documento politico generale di alto livello che consentirà di avere un’analisi condivisa dei rischi e delle sfide che i Paesi dell’Unione sono chiamati a fronteggiare, fornirà orientamenti e priorità politiche e rafforzerà la coerenza tra le iniziative di difesa e sicurezza comune. Essa interessa quattro aree tematiche: la gestione delle crisi, resilienza, sviluppo delle capacità e partnership. Si tratta, in sintesi, di un’iniziativa strategica sulle attuali e future esigenze di sicurezza e di difesa dell’Europa, concordata dai 27 e di cui si prevede l’approvazione durante il semestre di turno di presidenza francese del 2022. Tutte queste iniziative intendono dare una credibilità strutturale a quel concetto di autonomia strategica, comparso già nel 2013, che è da intendersi come capacità di operare autonomamente, quando e dove necessario, pur ricercando sempre di agire insieme ai partner, laddove possibile. Non è autonomia da qualcuno, ma capacità di agire da soli quando serve. Quindi non autonomia dalla NATO, bensì capacità di azione quando questa non può o non vuole intervenire. D’altronde, il contrario dell’autonomia è la dipendenza da qualcuno: una condizione che l’Europa non può accettare, soprattutto in luce di quanto affermato nel 2016 con la Global Strategy, ossia, l’ambizione di essere un credibile global security provider, come ben dimostrato dalle politiche vaccinali europee intraprese nel contrasto alla pandemia da Covid-19.
Dal 2016 al 2021 il passo è stato breve ed è evidente che gli eventi in Afghanistan, le mutate priorità degli Stati Uniti, il nuovo ruolo della Cina e l’affermarsi di nuovi attori sul palcoscenico internazionale rendono urgente un ulteriore passo verso la creazione di un’Europa più assertiva, in grado di operare in tutto lo spettro delle crisi. Da qui la stringente necessità, evidenziata dal Presidente Draghi a Brdo in Slovenia e dal discorso sull’Unione della Presidente Von der Leyen, di creare una forza europea a completamento delle iniziative già esistenti e quindi amalgamabile con le forze NATO, in un’ottica di single set of forces (abbiamo, cioè, le stesse forze per la NATO, per l’ONU, per l’Unione europea e per la sicurezza interna). Un ritrovato slancio politico che, certamente con diverse sfumature, attraversa tutte le cancellerie ed istituzioni europee e che interessa direttamente il mio lavoro, e quello di molti, volto ad armonizzare le diverse esigenze di sicurezza per ottenere non tanto un minimo comune denominatore, quanto un equo comune multiplo. Il discorso sullo stato dell’Unione, fatto il 15 settembre dalla Presidente Von der Leyen, va proprio in questo senso. È quindi su questo background che si inserisce la necessità di dotare l’Unione di quella che tecnicamente chiameremmo full spectrum force package. L’elemento più visibile di una rafforzata capacità di intervento militare da parte della UE si può identificare, infatti, in una formazione multinazionale interforze, che potremmo definire Joint EU Entry Force e che, nei fatti, supererebbe l’idea del EU Battlegroup, non più adeguata ai tempi. Si tratterebbe di una formazione militare multinazionale di natura interforze, composta da un numero variabile di assetti, la cui entità e natura dipenderà dalla tipologia del compito da assolvere e dall’ambiente operativo in cui sarà chiamata ad agire. Tale forza dovrà essere concepita dotandola, fin da subito, di una vasta gamma di assetti navali e aerei necessari non solo per il trasporto, il supporto e l’appoggio, ma anche per la condotta di attività operative. Volendo dare un’idea e basandosi sull’entità media dei contingenti occidentali impiegati in operazioni di gestione delle crisi negli ultimi anni, il volume organico di tale forza non potrebbe essere inferiore a 5.000/6.000 soldati. In termini di credibilità e forza dispiegabile vanno considerati in maniera prioritaria il processo decisionale e il meccanismo di voto basato sul criterio dell’unanimità, citato precedentemente dalla Presidente Pinotti, motivo per il quale si necessita una maggiore velocità decisionale, adattabile alla dinamica della crisi che si deve affrontare. Nello specifico, il processo decisionale prevede una fase in cui i Paesi dell’UE votano una particolare linea strategica di politica estera e di sicurezza. Fatto ciò, segue una fase in cui si decide di ricorrere a strumenti militari e, quindi, l’adozione di decisioni finalizzate ad eseguire e portare a termine la missione loro affidata. Nelle prime due fasi votano tutti i Paesi membri ed il voto deve essere unanime. Nel terzo passaggio votano solo i paesi che hanno deciso di aderire alla cooperazione rafforzata. Sulla procedura si è intervenuti con il trattato di Nizza, grazie al quale è stata prevista la possibilità di procedere con cooperazioni rafforzate.
Mi permetto di ricordare ai più giovani dei presenti il lungo percorso che ha portato all’istituzione dell’euro, iniziato in occasione del vertice dell’Aia del 1969 (dove i Capi di Stato definirono un nuovo obiettivo dell’integrazione europea: l’Unione economica e monetaria. Il 1º gennaio 2002, cioè 33 anni dopo, i primi dodici Paesi europei adottarono l’euro, che è, oggi, la moneta unica attualmente adottata da 19 dei 27 Stati membri dell’Unione. Con ciò voglio soltanto dire che quelli di cui stiamo parlando sono processi che rientrano nei tempi della storia e non della cronaca. Per questo, i presupposti per le Politiche di Difesa e Sicurezza comune affondano nei trattati dei primi anni Novanta, e non nella CED degli anni Cinquanta. Quindi, ritengo personalmente che la fase che stiamo vivendo è quanto mai favorevole ed appropriata, superando l’articolo 44 e il vincolo dell’unanimità. Non credo che ciò porterà, nel giro di qualche anno, alla costituzione di un unico esercito europeo, ma ritengo si possano fare ottimi passi avanti lungo questo processo di integrazione. Non bisogna entusiasmarsi più del dovuto, ma non bisogna nemmeno perdere la speranza di fronte a qualche rallentamento di marcia. Tutto ciò assume una dimensione ancora più importante in ragione della strategia USA per riequilibrare la propria presenza nell’Indopacifico in funzione anti-cinese. Un confronto, quello tra le due potenze, che temo sarà destinato ad intensificarsi. Ad oggi, è di natura principalmente commerciale e tecnologica, ma ha e avrà ripercussioni anche nella sfera della sicurezza, soprattutto in termini di investimenti nel settore della difesa. Mai, infatti, nella storia recente la sfida tecnologica ha avuto tale centralità nella competizione geopolitica. Quella in atto tra le grandi potenze è una sfida per il primato tecnologico, ossia volta ad acquisire un vantaggio geopolitico. Con riferimento al 2020, gli Stati Uniti d’America hanno continuato ad essere i primi al mondo con una spesa militare di 778 miliardi di dollari (pari circa al 3,7% del PIL), seguiti dalla Cina con 252 miliardi (pari a circa l’1,9 % del PIL). A voler prendere con le dovute cautele i dati forniti da Pechino, mi permetto di richiamare la vostra attenzione su due punti che meglio ci aiuteranno a capire le scelte europee in materia di investimenti in ricerca e sviluppo tecnologico nell’industria della difesa. Il primo è di carattere ragionieristico. Le cifre appena citate fanno riferimento ai prezzi correnti, quelli usati per stilare le statistiche, secondo i quali Pechino spenderebbe circa 1/3 di quanto spende Washington. Tuttavia, se il calcolo venisse fatto non a prezzi correnti ma con il reale potere d’acquisto, la spesa cinese balzerebbe a circa 520 miliardi, ossia 2/3 di quella americana. Il secondo, invece, riguarda la qualità degli investimenti. È noto, infatti, che la Cina sta investendo in maniera impressionante sulle capacità navali e sull’applicazione delle emerging disruptive technologies alle capacità militari. In questo caso, il vantaggio tecnologico occidentale rischia di essere insidiato, se non superato, da Pechino. Ricordo che tra il X e il XII secolo i cinesi inventarono la polvere da sparo e il suo sviluppo lo si ebbe non per fini bellici, ma nei fuochi d’artificio. Temo che, se oggi Pechino dovesse continuare a perseguire la ricerca e l’innovazione tecnologica, soprattutto per quel che riguarda l’intelligenza artificiale, non rifarebbe lo stesso errore di sei secoli fa. Anzi, tutto lascia presagire che la Cina si stia preparando ad essere anche una superpotenza militare oltre che economica, tecnologicamente avanzata e proiettata nel futuro. Anche in ragione di ciò, credo che l’Europa non possa ritenersi disinteressata da questa competizione tecnologica, al cui confronto la corsa allo spazio e la guerra fredda rischiano di essere solo il prologo.
In conclusione, ritengo che la difesa comune sia ad un bivio importante, dinanzi al quale a sancire le future sorti è più che mai la volontà degli Stati membri di proseguire lungo il processo di integrazione, cogliendo a pieno le opportunità presentate dalle iniziative esistenti. È questo il momento di superare egoismi e meri interessi di parte. Il nostro Paese deve essere capace di incidere nei processi decisionali comunitari, ed è fondamentale, ora più che mai, essere proattivi e non reattivi perché, altrimenti, ogni vuoto sarà riempito da altri. Ci troviamo davanti ad una finestra temporale non amplissima, un orizzonte nel quale sarà possibile salvare l’Europa dalla marginalità internazionale. Uno sforzo di lungimiranza al quale tutti siamo chiamati e l’Europa non è certo lontana. È «un percorso duro e difficile, una battaglia», come scriveva Altiero Spinelli «in cui è necessaria una concentrazione di pensiero e di volontà per cogliere le occasioni favorevoli quando si presentano, per affrontare le disfatte quando arrivano, per decidere di continuare quando è necessario». Non possiamo e non dobbiamo sprecare quest’occasione che la storia ci offre perché, come detto in altri termini, più tardi sarà irrimediabilmente tardi.
Claudio Graziano – presidente di Fincantieri, già Capo di stato maggiore della difesa, già presidente del Comitato militare dell’Unione europea