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Conflitto a Gaza: i negoziati del Cairo esemplificano il ruolo dell’Egitto

A inizio aprile, le delegazioni di Israele e Hamas, e di alcuni Paesi mediatori, tra cui Qatar, Egitto e Stati Uniti, hanno tenuto degli incontri presso la capitale egiziana per un nuovo tentativo di raggiungere il cessate il fuoco. Il nodo più complicato da sciogliere ha riguardato il rilascio degli ostaggi israeliani, considerato una condizione sine qua non da Tel Aviv. Dei 253 israeliani imprigionati il 7 ottobre scorso, 130 si troverebbero ancora nella Striscia. In particolare, Israele ha proposto di rilasciare 700 prigionieri palestinesi e di concedere una tregua di sei settimane in cambio del rilascio da parte di Hamas di 40 ostaggi fra donne, uomini in età avanzata e persone con problemi di salute. Nonostante i media egiziani avessero preannunciato il compimento di “grandi progressi” nel quadro della succitata trattativa, gli incontri sembrano essersi risolti in un nulla di fatto. Tuttavia, meritano particolare attenzione le modalità con cui i negoziati sono stati svolti. Gli incontri, infatti, si sono tenuti in due sedi separate, in modo tale che i delegati delle parti in conflitto non si incontrassero direttamente. La delegazione israeliana si è consultata con quelle statunitense ed egiziana, mentre i rappresentanti di Hamas hanno conferito con i delegati egiziani e qatarioti. Le parti sono poi entrate a conoscenza delle rispettive proposte attraverso le delegazioni dei Paesi terzi. Il ruolo chiave svolto dall’Egitto, unico mediatore confrontatosi sia con Hamas che con Israele, ne esemplifica il posizionamento sullo scacchiere regionale. Il Cairo è in una posizione delicata dal punto di vista economico e sociale, oltreché relativamente al suo ruolo all’interno della Ummah islamica. Quanto ai primi due punti, l’instabilità nel Mar Rosso sta determinando importanti perdite economiche, e l’eventuale assedio israeliano della città di Rafah, nel Sud della Striscia, causerebbe un’emergenza migratoria foriera di instabilità sociale e minacce alla sicurezza. La penetrazione in Egitto di cellule di Hamas o di movimenti della militanza armata palestinese, infatti, potrebbe minare il programma politico di al-Sisi, tra i cui obiettivi principali – secondo quanto dichiarato in occasione del suo giuramento per il terzo mandato da presidente – rientra «la sicurezza della Nazione e del suo popolo». In termini assoluti, ad al-Sisi, dunque, converrebbe l’interruzione immediata dei combattimenti nella Striscia di Gaza. Ma se il fatto che Hamas abbia la meglio sulle forze di difesa israeliane è alquanto improbabile, schierarsi nettamente dalla parte di Israele avrebbe non pochi “effetti collaterali” nell’opinione pubblica araba e musulmana. Il Cairo, in effetti, si trova al centro di una rete intricata di rivalità ed alleanze, per cui coltiva buoni rapporti con Tel Aviv da quarantacinque anni ed ha il massimo interesse, insieme all’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, alla stabilizzazione geopolitica regionale e a preservare buoni rapporti con l’Occidente. D’altra parte, l’Egitto ha un importante ruolo storico-culturale e religioso all’interno della Ummah per via, tra le altre cose, della vivacità politica e culturale interna e della presenza dell’Università di al-Azhar. Dal momento in cui, sul finire del secolo scorso, la “causa palestinese” è diventata una questione “islamica”, coniugare i succitati elementi sul piano politico è diventato sempre più complicato. Alcuni attori regionali stanno cavalcando l’onda mediatica del conflitto a Gaza in funzione anti-israeliana e anti-occidentale, mettendo al-Sisi nella difficile condizione di dover bilanciare gli interessi legati al rapporto con Israele e con l’Occidente, da una parte, e quelli legati al ruolo del Paese nel mondo islamico, dall’altra. Il proseguimento dei combattimenti nella Striscia e l’intensificazione delle tensioni tra Tel Aviv e Teheran potrebbe danneggiare irrimediabilmente l’immagine del Cairo.

Coordinamento a cura di Ciro Sbailò

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