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Proteste contro Israele negli Atenei: un confronto tra Stati Uniti e Francia

I campus universitari di molti Paesi, in particolare negli Stati Uniti e in Europa occidentale, sono stati teatro di un elevato numero di proteste che hanno coinvolto molti studenti. Questi hanno chiesto alle istituzioni accademiche di disinvestire dalle aziende che forniscono armi a Israele per evitare che siano complici nelle azioni militari condotte dall’esercito di Gerusalemme, di aiutare gli studenti di origine palestinese attraverso l’attivazione di specifici programmi di borse di studio o, come nel caso della londinese Goldsmiths, la rinomina di un’aula in onore della giornalista di Al-Jazeera, Shireen Abu Akleh. 

In particolare, negli Stati Uniti, la Columbia University ha registrato le prime proteste e l’occupazione del campus attraverso accampamenti sistemati nell’area. Da qui, questa ondata ha interessato anche altri atenei (in particolare quelli degli Stati della fascia atlantica) e le reazioni delle forze dell’ordine hanno portato, finora, all’arresto di circa 800 persone e, in alcune circostanze, l’utilizzo di un irritante chimico per disperdere gli studenti. Nonostante i manifestanti si siano appellati al diritto di esprimere liberamente il loro pensiero, l’intervento della polizia è stato necessario davanti a specifiche accuse che nulla hanno a che vedere con questo diritto come violazione di domicilio, atti di vandalismo e distruzione di proprietà privata.

A tal proposito, il Presidente Biden ha condannato le proteste affermando che c’è il diritto a protestare senza, però, creare disordine. Inoltre, ha sottolineato l’impossibilità di difendere il diritto a manifestare il proprio pensiero se questo comporta violenza e distruzione. Dall’altra parte, il Segretario di Stato Blinken ha definito le proteste un segno della democrazia americana, imputando, però, agli studenti di non tenere in considerazione anche i crimini commessi da Hamas.

In Francia, invece, gli scontri principali si sono concentrati a Parigi e a Saint-Étienne. Nello specifico, nella capitale, gli studenti dell’università Sciences Po hanno bloccato l’ingresso al campus con dei bidoni della spazzatura, oggetti di legno e metallo e una bicicletta. Sono state contate tra le 40 e le 50 persone rimaste negli edifici dell’ateneo durante la notte del 27 aprile. Anche qui, abbiamo avuto l’allestimento di accampamenti nel campus e il personale universitario è stato costretto a cancellare le lezioni e le cerimonie di laurea. Le forze dell’ordine sono intervenute per ripristinare l’ordine dentro le università e hanno, quasi pacificamente, allontanato gli studenti in protesta.

In riferimento a questi episodi, il Presidente Macron ha “benedetto” l’interesse per le questioni di politica internazionale da parte dei giovani studenti francesi denunciando, allo stesso tempo, il blocco delle attività accademiche e l’impossibilità di far accedere alcuni studenti, perché Ebrei, nei locali degli atenei. Molto più forte, invece, l’intervento della ministra dell’istruzione superiore, Retailleau, che ha invitato i rettori delle università ad intervenire per mantenere l’ordine pubblico utilizzando la massima estensione possibile dei poteri a loro disposizione.

La reazione giuridica e politica nei due Paesi è stata simile, ma non uguale. Infatti, troviamo alcune importanti differenze motivate dalle diverse caratteristiche legislative degli ordinamenti statunitense e francese e dalla presenza di differenti fattori di convenienza politica. 

In particolare, entrambi gli Stati vedono un importante riferimento legislativo nella “Dichiarazione universale di diritti dell’uomo” del 1948 che contiene al suo interno l’articolo 19 che garantisce la libertà di espressione e di opinione. Inoltre, la Francia è vincolata anche all’osservanza alla Carta di Nizza del 2000 (altrimenti nota con il nome “Carta dei diritti fondamentali dell’uomo”) che prevede la medesima libertà all’articolo 11, paragrafo 1. 

Ritornando alle specificità dei due ordinamenti, partiamo con un’analisi sugli Stati Uniti.

La libertà di espressione è garantita dal Primo Emendamento della Costituzione americana. Nonostante questa garanzia, ci sono dei limiti alla libera fruizione di questa libertà. Nel corso degli anni, la Corte Suprema si è confrontata con alcune vicende giudiziarie che hanno visto lo scontro tra la libertà di espressione e il rispetto dell’ordine pubblico. Apprendiamo, però, che secondo l’orientamento di suddetta Corte, la libertà di espressione include il diritto degli studenti ad indossare qualcosa (in particolare, una fascia nera) a scuola per protestare contro una guerra ritenuta ingiusta senza che questo comporti la perdita dei diritti costituzionali degli alunni nel momento in cui varcano l’ingresso della scuola (caso Tinker contro Des Moines del 1969 per le proteste contro la guerra del Vietnam) o la possibilità di utilizzare parole o frasi offensive allo scopo di diffondere un messaggio politico (Cohen contro California del 1971).

Ciò che l’interpretazione e l’applicazione del Primo Emendamento non consente negli USA è l’incitamento (oltre alla mera realizzazione) di azioni illegali che potrebbero derivare dal libero utilizzo della parola (proprio come avvenuto in alcune università nelle scorse settimane e come sancito nella causa Brandeburgo contro Ohio del 1969).

Inoltre, nonostante la sentenza Sweezy contro New Hampshire del 1957 abbia permesso ad insegnanti e studenti di potersi mantenere liberi di informarsi, studiare e acquisire una loro maturità sulla conoscenza di alcuni argomenti, la Corte ha sempre lasciato aperta la possibilità, da parte delle università, di vietare o punire le intimidazioni o azioni che interrompono od ostacolano il processo educativo. Tale orientamento è stato confermato anche dalla celebre “Dichiarazione di Chicago” del 2014, condivisa da molti atenei americani, che ha sottolineato la necessità da parte delle università di tenere aperta, nei loro spazi, la possibilità di dialogo, confronto e scambi di opinione senza nessun danno alle attività didattiche e ai diritti individuali di ciascun soggetto appartenente ad una comunità studentesca universitaria.

Per quanto riguarda la Francia, invece, il quadro giuridico è leggermente diverso. Infatti, la giurisprudenza del Consiglio costituzionale francese si è maggiormente concentrato sulla definizione dei limiti della libertà di espressione. La sentenza 801/2020 ha riconosciuto al legislatore il dovere di intervenire per porre fine agli abusi dell’esercizio di libertà di espressione e di comunicazione. Inoltre, la prima decisione dei giudici costituzionali direttamente inerente alla libertà di espressione è arrivata soltanto nel 1993 affermando la garanzia della libera espressione e dell’indipendenza dei docenti e dei ricercatori. 

L’aspetto più interessante, però, proviene dalla legislazione francese. Questa permette agli studenti delle università di “lottare” per esprimere le proprie opinioni e idee, arrivando anche ad occupare alcuni locali di un ateneo. Questa occupazione, però, non deve essere totale, deve comunque garantire il normale svolgimento dell’attività accademica e non deve portare al divieto di ingresso delle persone che vogliono invece accedere nell’università. Inoltre, se gli atenei americani, in caso di attività accademica interrotta, possono affidarsi alla polizia del campus, in Francia la legge riconosce grandi poteri al rettore. La “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” del 1789, all’articolo 5 del titolo II relativo al governo delle università, richiama la previsione 712-1 del Codice dell’istruzione che attribuisce ai rettori il compito di assicurare la gestione delle Università, designando tale figura come responsabile dell’ordine pubblico e consentendo loro di ricorrere alla forza pubblica per questo obiettivo. 

Se negli USA, gli studenti sono stati accusati di vandalismo contro la proprietà dell’università, in Francia questo non è successo. L’intervento a favore del ripristino dell’ordine pubblico da parte delle forze dell’ordine transalpine ha avuto un duplice obiettivo. Il primo, relativo al ritorno alla normale attività didattica nelle università. Il secondo, invece, con riferimento ad un ordine pubblico di rilevanza nazionale.

Infatti, è in Francia che gli studenti sono stati accusati di anti-semitismo. Questo, in un Paese che ospita, allo stesso tempo, le più grandi comunità ebraica e islamica d’Europa, potrebbe rappresentare un problema nella gestione di una società, come quella francese, decisamente eterogenea dal punto di vista etnico-culturale. Non è casuale, a tal proposito, la frase di Macron che ha affermato di voler convogliare queste proteste in un tavolo di confronto. Il fine ultimo è instaurare un dialogo ed evitare che da una “semplice” manifestazione di un’opinione politica si possa passare ad una grave lacerazione del tessuto sociale internazionale.  

Vanni Nicolì – PhD Student


Coordinamento a cura di Ciro Sbailò

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