Iran «lost in transition»: la morte del Presidente Raisi e le sue ricadute
- 22 Maggio 2024
Alle 8 di mattina di lunedì 20 maggio 2024, ora locale di Teheran, la TV di Stato iraniana ha riferito che il presidente Ebrahim Raisi ed il ministro degli Esteri, Hossein Amir-Abdollahian, sono morti in un incidente in elicottero. Il velivolo è precipitato alle 13:30 di domenica 19 maggio , tra una fitta nebbia nel nord-ovest montuoso al confine con l’Azerbaïdjan. L’incidente si verifica in un momento in cui l’Iran, alle prese con sfide esterne senza precedenti, si stava già preparando per un cambio di regime, viste le precarie condizioni di salute dell’ormai anziano leader supremo, l’ayatollah Ali Khamenei.
In seno alla complessa leadership della teocrazia islamica iraniana – dove il potere è distribuito in modo spesso opaco tra chierici, politici ed esercito – è la Guida Suprema (rahbar), e non il Presidente, a detenere il potere decisionale. Le cariche di Capo di Stato e Primo Ministro, – originariamente modellate sulla Costituzione francese, sono state soverchiate nella stesura del Testo costituzionale iraniano del 1979. Questo ha indotto i fautori di una presidenza più forte a sostenere che il ruolo fosse assorbito nella forma di un’autocrazia strutturata in nome della religione. Si tratta del Velayat-e faqih, la dottrina teologico-politica teorizzata dal padre della rivoluzione islamica del 1979, il “Grande Ayatollah” Ruhollah Khomeini, che cambiò drasticamente l’assetto sociale dell’Iran contemporaneo e si oppose allo shah Mohammad Reza Pahlavi.
Chi comanda in Iran? Guida all’assetto istituzionale persiano
L’Iran è una Repubblica islamica di stampo presidenziale. Il Capo di Stato è l’Ayatollah, rigido custode dell’ortodossia sciita, giurista-teologo ritenuto intermediario per antonomasia tra il Profeta Muhammad e l’uomo. La Guida Suprema, dunque, ha il controllo diretto o indiretto sui rami esecutivo, legislativo e giudiziario, sulle forze armate e sui media.
Il Consiglio dei Guardiani della Costituzione (Shora-ye Negahabn-e Qanun-e Assassi) composto da 12 giuristi, ha il potere di veto su tutte le leggi votate dal Majlis. Sei dei suoi membri (islamici) sono nominati dal leader supremo, e gli altri sei giuristi (civili) scelti dal Parlamento tra una lista indicata dal Consiglio Supremo di Giustizia, a sua volta sottoposto alla Guidia. Rinnovata ogni otto anni tramite elezione diretta, è l’Assemblea degli Esperti, composta da 88 Mujtahid – gli interpreti della legge islamica – ad eleggere la Guida Suprema. Per quanto riguarda la presidenza della Repubblica Islamica, una carica eletta dal popolo – con un ruolo più amministrativo che politico – pur considerata fedele all’Ayatollah, questa viene spesso interpretata come un utile capro espiatorio che aiuta la Guida a schermare le critiche.
Cosa significa la morte di Raisi e Abollahian?
Come previsto dalla Costituzione iraniana, all’articolo 131, il ruolo di capo del Governo è stato assunto ad interim dal primo vice presidente Mohammad Mokhber con l’approvazione del capo dello Stato. Entro 50 giorni, precisamente il 28 giugno, il Paese si recherà alle urne per la nomina di un nuovo Presidente.
Nei mesi scorsi, Ebrahim Raisi, eletto nel 2021 ma in pratica scelto personalmente dal leader supremo, era stato indicato come possibile successore di Khamenei. La sua morte apre, un percorso spinoso all’interno della leadership più conservatrice, quanto per il figlio dell’Ayatollah, Mojtaba Khamenei. Con essa, infatti, aumenteranno certamente le possibilità di una successione ereditaria in Iran, qualcosa a cui molti religiosi sciiti si oppongono poiché estranea ai principi rivoluzionari islamici.
La scomparsa di Raisi si aggiunge alla sensazione di un Paese già in transizione politica. Un nuovo Majlis dalla linea intransigente è stato eletto il 1° marzo, con un’astinenza alle urne del 60%, un record dal 1979. I politici riformisti o moderati sono stati squalificati a priori, se non sonoramente sconfitti, lasciando una rinnovata divisione in Parlamento tra i tradizionali sostenitori della linea dura e un gruppo ultra-conservatore noto come Paydari o Fronte della Stabilità.
Parallelamente, la morte di Hossein Amir-Abdollahian, il ministro degli Esteri iraniano, non fa che aumentare il senso di instabilità per un Paese che aspira alla creazione di una civiltà islamica con Teheran come punto di riferimento degli Stati del Medio Oriente. Il suo successore, il vice, Ali Bagheri Khan, è considerato tra i sostenitori della linea dura, troppo disposto a negoziare con l’Occidente sul programma nucleare iraniano, come aveva già fatto nel 2015 a capo della delegazione che ha posto la firma sul JCPOA.
Un futuro incerto e le sfide oltre l’orizzonte
La sfida immediata della nuova leadership sarà quella di amministrare il dissenso interno, quanto le richieste delle fazioni conservatrici e intransigenti della politica iraniana, favorevoli ad una linea più dura con l’Occidente e una maggiore convergenza con Russia e Cina. Una collaborazione militare che appare sempre più stretta e minacciosa.
La sfida perenne per l’Iran rimangono le relazioni con Israele, che hanno raggiunto un nuovo livello di escalation ad aprile, quando i due Paesi si sono scambiati colpi armati, scatenati da un attacco israeliano al consolato iraniano a Damasco e, più in generale, dal sostegno dei Pasdaran ai gruppi per procura disposti a combattere lo Stato ebraico, tra cui Hamas palestinese, Hezbollah libanese e Houthi yemeniti.
Ma qualsiasi nuovo presidente dovrà prendere decisioni importanti sul programma nucleare iraniano
Il 9 maggio, Kamal Kharrazi, consigliere per la politica estera di Khamenei, ha affermato che Teheran prenderà in considerazione un cambio di dottrina alla tradizionale deterrenza nucleare se Israele attaccherà quelli che l’Iran ritiene siti di sviluppo civili. Intanto il capo dell’Osservatorio nucleare delle Nazioni Unite per l’AIEA (l’Agenzia internazionale per l’Atomica), Rafael Grossi, ha avvertito che Teheran ha abbastanza uranio arricchito a livelli quasi da arma da fuoco per realizzare “diverse” bombe nucleari.
I giovani oppositori del regime, spaccati al loro interno, non piangeranno la notizia della morte di Raisi a causa del suo ruolo nella repressione delle proteste “donna, vita, libertà”. Non lo faranno nemmeno molti tra gli iraniani più anziani, che biasimano Raisi per il suo ruolo di vice procuratore di Teheran nel 1988 quando, all’età di 28 anni, ha svolto un ruolo di primo piano nella cosiddetta “commissione della morte”, che ha ucciso migliaia di prigionieri politici, per lo più membri dell’Organizzazione dei Mujaheddin del Popolo in Iran (MEK).
Alessio Zattolo – PhD student