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Iran: voto o non voto? Questo è il dilemma

La morte del presidente Ebrahim Raisi e della sua delegazione in un incidente in elicottero, il 19 maggio 2024, vicino al villaggio di Uzi nell’Azerbaigian orientale, ha inaugurato un periodo di incertezza politica in Iran. La morte di Raisi, considerato uno dei favoriti a succedere all’ayatollah Ali Khamenei, 85 anni, la guida suprema della Repubblica islamica, apre ad elezioni presidenziali anticipate, originariamente previste per il 2025, ora fissate per il 28 giugno.

La tempistica accelerata ha lasciato ai candidati un tempo insufficiente a preparare una campagna elettorale approfondita, rendendo difficile prevedere l’esito del voto. In un momento particolare per il Paese, con una diffusa disillusione pubblica – sui social media e altrove è in corso una grande campagna a vantaggio dell’astensionismo – e per la regione, scossa dalla guerra nella Striscia di Gaza tra Israele e Hamas, alleato di Teheran.

Sono sei i candidati selezionati per le elezioni presidenziali in Iran, sugli 80 che si erano presentati al Consiglio dei Guardiani, il massimo organo di sorveglianza sulla compatibilità e la conformità con le norme islamiche e i principi della Costituzione.

Tra i 74 candidati respinti, risultano due personaggi di spicco. Ma a sorprendere non è tanto la squalifica dell’ex presidente radicale Mahmoud Ahmadinejad – noto negazionista dell’Olocausto, islamista avverso agli Stati Uniti e a Israele – da tempo critico contro il paradigma del Velayat-e Faqih e la centralità dei mullah sciiti. Quanto quella di Ali Ardeshir Larijani, già speaker del Parlamento, peraltro favorevole a revocare le sanzioni e rilanciare il JCPOA. In qualità di tradizionalista moderato, Larijani avrebbe potuto catalizzare il consenso tra conservatori e riformisti, rendendolo potenzialmente una scelta strategica in tempi di profonde divisioni interne all’establishment.

Pertanto, occorre cautela nel classificare i candidati secondo la loro inclinazione (più o meno) conservatrice.

Dopo il ritiro in extremis di Ghazideh Hashemi – vicepresidente dell’uscente gabinetto Raisi, a capo della Fondazione per gli affari dei martiri e dei veterani sanzionata per aver finanziato il client non statuale di Hezbollah– e di Alireza Zakani – il sindaco di Teheran a capo della campagna per l’imposizione dell’hijab – le figure chiave di queste elezioni restano Mohammad Bagher Ghalibaf, Saeed Jalili e Masoud Pezeshkian.

Sebbene ci siano indicazioni sul fatto che i primi due nomi – ben saldi nel campo della “destra” dopo l’epurazione effettuata dal Consiglio di vigilanza nel 2020 – per scongiurare l’ipotesi di un cambiamento, si faranno da parte a favore dell’altro, non ci sono ancora indicazioni che ciò accada. Ghalibaf, l’attuale speaker parlamentare (dopo la morte di Raisi), ex capo della polizia iraniana (con una storia di dura repressione delle proteste) e comandante dell’aeronautica del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (IRGC), sembra il candidato più forte, nonostante pesino sul suo conto accuse di corruzione. Appartiene all’area pragmatica dei “principalisti” (o “tradizionalisti”), che rappresenta una cerniera tra la prima e la seconda generazione della rivoluzione, rispettosa della guida suprema e dei canoni costituzionali fondamentali della Repubblica, un tempo maggioritaria e in continuità con il predecessore Raisi.

Il suo vecchio rivale oltranzista è Jalili, membro del Consiglio di discernimento (il principale organo consultivo dell’ayatollah) e già capo negoziatore nucleare. Sostenuto dal Fronte Paydari, la coalizione delle forze più radicali nella sfera dei conservatori (costituita nel 2011 col tramonto di un Ahmadinejad bis, e fortemente strutturata nel corso della presidenza Raisi), di fatto andando a contrastare anche la tradizione teocratica in favore di un modello autoritario e presidenzialista, e quindi quello più vicino all’ambito della Sepah-e Pasdaran (i Guardiani della Rivoluzione, o IRGC, dall’acronimo inglese) che «circonda», oggi più che mai, il leader supremo. L’ambizione degli ultraconservatori, in prospettiva, non mancherà di esacerbare i rapporti interni al campo tradizionalista, a detrimento soprattutto delle forze “moderate”.

Con un dibattito politico anemizzato dal potere di veto sulle candidature da parte del Consiglio dei Guardiani, alla vigilia del voto di venerdì sembrava già tutto scritto. Tuttavia, la recente campagna elettorale potrebbe suggerire qualcosa di diverso.

Masoud Pezeshkian, l’unico candidato “riformista” (autodefinitosi “moderato”) è stato ministro della Sanità sotto Khatami, e gode del supporto di figure significative come l’ex ministro degli esteri Javad Zarif e l’ex presidente Hassan Rouhani. È un cardiochirurgo le cui convinzioni si rifanno agli ideali di sinistra della rivoluzione del 1979. Come deputato ha criticato le forze di sicurezza per aver represso le proteste della cosiddetta “Onda verde” nel 2009, e la polizia morale per aver schiacciato le proteste del movimento “Donna, vita, libertà” nel 2022. Come circa un quarto degli iraniani, proviene dal nord-ovest di lingua turca e difende i diritti delle numerose minoranze etniche del paese.

Nel corso del dibattito, Pezeshkian è stato oscurato dall’altro conservatore pragmatico (o “riformista”), Mostafa Pourmohammadi, l’unico chierico in corsa (anche se non ha il lignaggio profetico di un sayyid), che ha scalato i ranghi del ministero dell’Intelligence con il suo ruolo nell’esecuzione di prigionieri politici del 1988.

Nondimeno, il campo riformista si è radunato attorno a Pezeshkian, sostenendo la sua candidatura più dello stesso candidato. È stata lanciata un’accesa campagna mediatica per convincere gli scettici che votare è ancora importante nella Repubblica islamica, sperando che possa riportare l’Iran verso un rapporto più favorevole con l’Occidente. Oggi, però pochi iraniani sembrano credere a questa affermazione. L’ayatollah, in un recente discorso, ha sostanzialmente affermato che l’affluenza alle urne è più importante di chi viene eletto presidente – ecco forse spiegato le ragioni di un candidato “riformista” ammesso alle elezioni.

Un calcolo politico che, nella mente di Khamenei, rafforza la sua immagine e con essa la legittimità della Repubblica islamica. Alquanto pericoloso perché tende a minimizzare le istanze sociali della popolazione, la quale, continua a chiedere con forza un cambio del processo decisionale in senso pluralista e riformista, e che potrebbe degenerare in una rinnovata ed esacerbata forma di dissenso.

Secondo i sondaggi, tutti e tre i principali contendenti competono per l’accesso al secondo turno, previsto per il 5 luglio. Indipendentemente dall’esito è però difficile pensare che chiunque vinca la presidenza possa effettivamente sfidare l’autorità della guida suprema, o a repentini cambi in politica interna. Lo stesso vale per l’economia, che soffre di una crisi endemica ed è messa in difficoltà dalla chiusura con l’Occidente e dalle sanzioni.

La priorità resta l’indipendenza politica della Repubblica islamica. Un mantra che gli iraniani conoscono ormai a memoria.

A livello internazionale, questo si traduce nella “Look East” policy, la proiezione asiatica degli interessi geopolitici persiani, che saldi in modo sempre più solido – leggasi radicale – il legame con Cina e Russia. In chiave alternativa e antagonista all’ordine mondiale a guida americana. Sebbene molto dipenderà anche da ciò che succederà con le elezioni negli Stati Uniti. Rimane sullo sfondo l’interrogativo del programma sul nucleare, abbandonato unilateralmente da Washington nel 2018.

Quanto al Medio Oriente, qualora a Teheran trionfassero gli ultraconservatori, continuerebbe il supporto filopalestinese contro lo Stato ebraico. Con un surriscaldamento della tensione regionale, come sta succedendo sul fronte Nord della crisi, con Hezbollah, e nel Mar Rosso, con gli Houthi. Un tipico effetto del retrenchment americano, che potrebbe smorzare anche il protagonismo del fronte sunnita alleato di Israele, ritardando la definitiva estensione degli “accordi di Abramo” all’Arabia Saudita. Fornendo un’occasione all’Iran di trovare la sua raison d’être per imporsi, almeno momentaneamente, nell’area.

 

Alessio Zattolo – PhD Student

Coordinamento a cura di Ciro Sbailò

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