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L'alleanza del campo sunnita moderato difende Israele di fronte all’escalation della Repubblica islamica d’Iran

A guardare in un colpo d’occhio le risposte divergenti tra le principali nazioni sunnite all’attacco su Israele da parte dell’Iran, il principale Paese sciita della regione, si intuisce una complessa trama di interessi geopolitici e di-visioni ideologiche, che ora contribuiscono a definire lo spazio politico del Medio Oriente e, in futuro, potrebbero avere un ruolo - chiave nelle dinamiche internazionali.

Le immagini dell’intercettazione di centinaia tra missili e droni iraniani nel cielo giordano, la notte tra sabato 13 e domenica 14, hanno rilanciato le accuse nella Piazza araba di connivenza degli Stati della regione con Israele e il suo alleato americano. Brucia la percezione, diffusa tra l’opinione pubblica, di un mobilitazione ritenuta troppo tiepida dei leader arabi a favore dei palestinesi.

 

Sebbene le potenze del Golfo continuino a dichiarare la propria neutralità nel timore di un’escalation regionale, sono state comunque prese di mira se non altro per il fatto di ospitare basi USA utilizzate per la sorveglianza. A differenza della Giordania, che invece ha intrapreso un’azione diretta per la difesa di  Israele. Un alleato insolito per il solo fatto di ospitare nel suo territorio 6 milioni di palestinesi, che di fronte  ad “un rischio reale di lancio di missili iraniani” sul regno hashemita ha dispiegato la propria contraerea. Così si è giustificato il capo della diplomazia giordana, Ayman Safadi, in un’intervista alla televisione di Stato Al-Mamlaka. Una spiegazione che non ha convinto una popolazione che da ottobre partecipa in massa a grandi manifestazioni di solidarietà in favore dei palestinesi di Gaza, in alcuni casi soffocate con la forza.

 

L’idea che attorno alla coalizione militare guidata da Washington, Londra e Parigi, si sia formato un blocco inedito in difesa dello Stato ebraico con l’appoggio dei partner arabi rivali di Teheran, è abbondantemente sostenuta dai funzionari israeliani, i quali, tuttavia assicurano che la risposta di Tel Aviv “non metterà in pericolo i suoi alleati”. Lo riferisce l’emittente pubblica Kan. Il riferimento è agli Stati di Egitto e Giordania, legati ad Israele da un trattato di pace, rispettivamente, del 1979 e 1994,  nonché alle petro-monarchie del Golfo. Domenica 14 aprile 2024, il ministro della Difesa Yoav Gallant aveva sottolineato l’opportunità di stringere “un’alleanza strategica” evidentemente figlia dell’asse anti-Iran che ha sostenuto la normalizzazione delle relazioni politiche ed economiche tra Israele e quattro Paesi della regione – Emirati Arabi Uniti (EAU),  Marocco, Bahrein e Sudan – nell’ambito degli Accordi di Abramo del 2020.

 

Promossi da Washington sotto la presidenza di Donald Trump e la regia del Kingdom of Saudi Arabia (KSA), gli Accordi si inseriscono negli sforzi statunitensi per forgiare un’alleanza regionale tra Israele e le potenze arabe dell’area. Non senza suscitare reazioni, anche severe, da parte della Turchia, delle organizzazioni palestinesi e della Fratellanza musulmana di cui Hamas  rappresenta una storica ramificazione nella Striscia di Gaza. Un’altra componente degli Accordi di Abramo è stata l’integrazione dello Stato ebraico nel comando centrale dell’esercito americano (CENTCOM) in Medio Oriente, a cui partecipano anche i regni di Amman e Riyadh. Prima dell’attacco iraniano, il comandante del CENTCOM, il generale Michael Erik Kurilla, si era recato a Tel Aviv per coordinare a monte la strategia militare difensiva. E non è certo un caso che fin dall’amministrazione Obama, per volontà di Benny Gantz, già capo di Stato maggiore delle Forze di Difesa Israeliane, (in ebraico Tzahal, note come IDF)  sia stato istituito un protocollo top secret di cui farebbero parte KSA, Qatar, EAU, Giordania, Egitto, Bahrein, Marocco. Si tratta del MEAD, ovvero la Middle East Air Defence, il cui obiettivo è quello di rafforzare lo scambio di intelligence tra i Paesi membri nonché le loro capacità militari.

 

L’attacco pesantissimo dal territorio persiano a quello ebriaco, lo scorso fine settimana, ha un triplice effetto. In primo luogo, si tratta di una risposta diretta di Teheran ai missili lanciati da Israele, che il 1 aprile hanno distrutto il consolato iraniano a Damasco, causando la morte di diverse persone, tra cui il generale dei pasdaran Mohammed Reza Zahedi. Questo ha  cambiato i termini del confronto di lunga data tra Israele e l’Iran che, come parte della sua strategia di deterrenza, dalla rivoluzione islamica del 1979, ha coltivato e finanziato una “guerra ombra” con il sostegno alla rete dell’”Asse della resistenza” – in Libano, Siria, Iraq, Yemen e Palestina. In secondo luogo, ha posto “virtualmente” fine all’isolamento internazionale dello Stato ebraico causato dal dissenso del presidente Biden per la disastrosa guerra condotta a Gaza dal suo premier, Benjamin Netanyahu. Infine, ha ribadito gli intenti di un’alleanza informale anti-Iran nel mondo sunnita, che fornendo lo scudo politico-militare a Israele intende ridisegnare gli assetti geopolitici del Medio Oriente, sulla base di interessi difensivi ed economici .

 

Nell’attuale stagione dell’ordine internazionale, una “nuova catastrofe palestinese” è diventata l’’epicentro del recente conflitto al centro del Mondo islamico, sviluppatosi attorno alla mobilitazione dell’Islam politico, incarnato da Hamas. 

 

Da una parte, il blocco dei sostenitori della Fratellanza palestinese, che si fonda sull’“Asse della resistenza” guidato, appunto, dall’Iran: Hezbollah libanese, milizie sciite e irachene, i ribelli Houthi yemeniti. L’Asse, a prevalenza sciita, ha molti punti di collegamento con un altro fronte, quello sunnita dell’”alternativa islamica”. Qui si collocano parzialmente il Qatar e, soprattutto, la Turchia, il solo Paese musulmano della regione ad aver negato l’uso dello spazio aereo alle forze armate occidentali accorse in aiuto di Israele. Sebbene Ankara e Tel Aviv abbiano normalizzato le relazioni nel 2022, i rapporti si sono drasticamente deteriorati dall’attacco di Hamas, il 7 ottobre 2023, e dalle operazioni militari di Israele a Gaza. Il presidente turco Erdoğan, convinto della legittimità di Hamas nello spazio pubblico palestinese – un risultato naturale della sua affinità ideologica per i Fratelli Musulmani – ha preso una posizione molto dura contro lo Stato ebraico. Tanto che i due Paesi hanno richiamato i loro ambasciatori, anche se le relazioni commerciali continuano. 

Dall’altra, nel campo dei suoi oppositori, l’ Islam politico è avversato da un fronte moderato “allargato” e ispirato alla linea occidentale Dove ad emergere è stata la scelta di campo del re giordano Abdullah, che riconoscendo “priorità alla sicurezza nazionale” davanti all’attacco iraniano ha preferito compiere passi concreti per non ostacolare la difesa di Israele. Finendo per isolare, questa volta sì, la Repubblica islamica.

 

Dopo il sisma iniziale, ogni conflitto genera alleanze. Oltre alle dichiarazioni di condanna per il massacro di civili a Gaza, il blocco sunnita moderato sembra guardare al futuro di Gaza con una prospettiva diversa: proteggere i propri interessi economici e politici. Pertanto, sostenere le operazioni americane e negoziare con Israele, se necessario, e riprendere la via degli accordi di Abramo per capitalizzare la risposta di una pace e rivendicare lo status di leadership regionale.

Coordinamento a cura di Ciro Sbailò

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