La sottile trama del potere in Medio Oriente
- 7 Marzo 2024
Le consultazioni nazionali per il rinnovo del Parlamento e dell’Assemblea degli Esperti, presentate come un test di legittimità per il Governo di Teheran, si sono svolte in clima di “stress” economico e politico del Paese sciita, coinvolto nell’escalation regionale della guerra Israele-Hamas. Alle elezioni del 1° marzo, le prime dalla morte, nel settembre 2022, della giovane curda Mahsa Amini – arrestata dalla polizia religiosa per non aver indossato correttamente il velo – che innescò un’ondata di proteste antigovernative e la violenta repressione del regime, l’affluenza alle urne si è fermata al 41% dei 61 milioni di elettori, segnando il nuovo record negativo dalla rivoluzione islamica del 1979. I risultati, favorevoli alle fazioni (ultra) conservatrici che sostengono il Governo del presidente Ebrahim Raissi – eletto nel 2021 – in seguito alla squalifica di molti candidati moderati o riformisti dalle liste elettorali, riflettono la complessità dei sentimenti dell’elettorato e la natura sfaccettata della governance iraniana.
Teheran vuole essere la potenza dominante del Medio Oriente, ma nel lungo inverno politico iraniano il barometro elettorale sembra indicare un clima ancora peggiore. Nondimeno, sarebbe sbagliato pensare che, con l’irrisolta questione palestinese e il perdurare della guerra a Gaza, l’Iran non stia comunque traendo i dividendi delle risorse investite nei passati decenni per sostenere e finanziare i suoi proxy regionali.
La guerra a Gaza, scaturita esattamente cinque mesi fa, il 7 ottobre 2023, con l’attacco di Hamas a un rave party nel deserto del Sud di Israele, è diventata il crocevia per la convergenza degli interessi di svariati players in Medio Oriente. Dall’Iran agli Hezbollah libanesi, dalla Siria alle milizie irachene agli Houthi yemeniti, si tratta di Stati e movimenti che orbitano intorno al polo di influenza di Teheran. Questa alleanza, tuttavia, non è dettata da una singola autorità, ma è in, buona sostanza, la risposta collettiva ad una sfida comune, vale a dire la resistenza all’egemonia regionale di Stati Uniti e Israele (considerata l’ultima “propaggine coloniale” dell’Occidente) per accrescere il proprio grado di autodeterminazione. Le conseguenze del conflitto su larga scala, infatti, hanno visto un rafforzamento del cosiddetto Asse della Resistenza. In questo contesto, i nodi dell’Asse, ognuno dei quali contribuisce con le proprie capacità e prospettive particolari ad una causa condivisa, devono meticolosamente bilanciarsi con gli interessi strategici della Repubblica islamica nel Mediterraneo allargato.
La credibilità della deterrenza regionale di Teheran, fin dagli eventi del 7 ottobre, ha potuto valersi della sempre ostile retorica anti-israeliana da parte dei mullah sciiti, fustigando i double standards dell’ Occidente nell’anteporre la preoccupazione per le atrocità commesse da Putin in Ucraina e la sicurezza commerciale alla perdita di vite innocenti e alla distruzione di tutte le infrastrutture civili nella Striscia di Gaza.
Le azioni assertive del movimento Houthi nel Mar Rosso rappresentano una manovra strategica per sconvolgere lo status quo e sfidare le strutture di potere marittimo consolidate. La loro strategia, che si concentra su attacchi alla sicurezza delle rotte commerciali, è una mossa calcolata per affermare la propria presenza e influenza in una delle vie d’acqua più vitali del mondo. I ribelli yemeniti hanno rivendicato oggi la responsabilità di un attacco missilistico (il quinto negli ultimi due giorni) che ha ucciso tre membri di una nave commerciale nel Golfo di Aden, ferendone altri quattro. Si tratta delle prime vittime dall’inizio della violenta campagna Houthi al largo delle coste dello Yemen, nel novembre scorso, come forma di supporto alle milizie islamiste di Hamas e in solidarietà al popolo palestinese. In risposta agli attacchi, gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno effettuato raid aerei contro l’aeroporto yemenita di Hodeida. «Gli americani e i britannici soffrono le ripercussioni della loro militarizzazione nel Mar Rosso», ha dichiarato Abdusalam Salah, portavoce degli Houthi.
Inoltre, la prospettiva di acquisire armi nucleari, in questo momento, potrebbe essere percepita dalla leadership iraniana come un mezzo adeguato per garantire protezione contro attacchi da parte di Israele o degli Stati Uniti, incoraggiando potenzialmente l’Asse della Resistenza a intensificare le attività di disturbo.
D’altronde, dopo il 7 ottobre, le argomentazioni di Teheran hanno trovato humus fertile per radicarsi nella Piazza araba, secondo i risultati di un sondaggio condotto dall’Arab Center for Research and Policy Studies (ACRPS), con sede a Doha. L’indagine, che tra il 12 dicembre e il 5 gennaio scorsi ha raggiunto 8mila persone provenienti da 16 Paesi arabi, ha rivelato che il 69% degli intervistati ha espresso sostegno per i palestinesi e Hamas, mentre il 67% ha considerato le azioni del 7 ottobre come legittima resistenza da parte del movimento islamista che dal 2006 governa la Striscia di Gaza.