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2024, il super anno elettorale. Come se la sta cavando la democrazia?

Il 2024 è il super-anno elettorale. Una chiamata alle urne per 76 paesi, con 4,1 miliardi di persone alle urne (51% della popolazione mondiale) e, in particolare, con più della metà del PIL globale.

Molte le sfide in grado di ridisegnare potenzialmente gli equilibri internazionali, anche per l’Europa, e poi c’è l’incognita americana. Oltre agli Stati Uniti, tra le otto nazioni più popolose del Pianeta, a scegliere i propri rappresentanti saranno gli elettori di India, Indonesia, Bangladesh, Brasile, Messico, Pakistan e Russia. In alcune di queste, parte degli aventi diritto ha già votato, in altre l’appuntamento è rimandato alla seconda metà dell’anno.

Le elezioni rappresentano l’esercizio più grande di democrazia, la forma di governo che si oppone a ogni tipo di dittatura. Ma non tutte le democrazie godono delle stesse libertà. Secondo l’Economist, in poco più della metà dei paesi interessati da questa tornata elettorale si voterà in un clima politico pienamente democratico, libero e pluralista.

Per restringere il campo, tra giovedì 6 e domenica 9 giugno si è votato nei 27 Stati membri dell’Unione Europea. La destra populista si avvia a rafforzare i seggi, mentre l’estrema destra guadagna terreno in Francia, costringendo Macron a indire nuove elezioni anticipate, Germania, dove Alternative für Deutschland (Afd) sorpassa il Partito socialista del cancelliere Olaf Scholz, e Austria.
Chi ha veramente vinto queste elezioni, è il partito degli Astensionisti, che in Italia ha toccato quota 51%, evidenziando una sfiducia, per non dire indifferenza, nel sistema democratico europeo che rischia di corrodere la credibilità e il collante che dovrebbero essere alla base del progetto dell’Unione.
Tuttavia, la maggioranza centrista del Parlamento di Strasburgo non deraglia. Il voto europeo ha rafforzato i Popolari e confermato l’ipotesi di una maggioranza pro Europa con Socialdemocratici e Liberali, ma bisogna necessariamente riflettere sul successo ottenuto dai sovranisti e il consenso popolare ottenuto. Nel prossimo quinquennio, sono previste riforme atte a rendere più efficace l’azione Ue e il suo peso in qualità di attore geopolitico.
La corsa al rinnovo della leadership della Commissione UE non è priva di critiche e ostacoli per un secondo mandato di Ursula von der Leyen. Attualmente, la precedente maggioranza della von der Leyen conterebbe 401 seggi sui 720 totali, a fronte di una maggioranza semplice necessaria di 361 voti. Alla prova del voto, nei giorni scorsi, le democrazie hanno tenuto duro, frustrando le aspettative degli autocrati del resto del mondo.

Queste elezioni hanno avuto diverse ricadute nazionali, specialmente in Francia. Il successo del Rassemblement national di Marine Le Pen, che ha ottenuto il 31,37% dei voti e ben 30 degli 81 seggi del Paese, ha spinto Emmanuel Macron a sciogliere immediatamente l’Assemblea nazionale e indire nuove elezioni, che si svolgeranno in due turni, il 30 giugno e 7 luglio, per formare un nuovo governo.

In Germania, l’Unione Cristiano-Democratica ha ottenuto il 30% dei voti, mentre AfD ha superato il Partito Socialdemocratico del Cancelliere Scholz, ottenendo rispettivamente il 15,9% e il 13,9%. Ma diversi problemi derivano anche dalle elezioni comunali, specialmente nelle zone est del Paese. Konrad Adenauer ha affermato che il muro eretto dalla Merkel nei confronti dei partiti di estrema destra non può reggere in eterno, specialmente a fronte degli ultimi risultati. Kretschmer, il governatore della Sassonia, land in cui si voterà il primo settembre e dove AfD ha ottenuto il 31,8% dei voti alle europee, ha ribadito la necessità di dialogare con tutte le forze politiche elette dal voto. Necessità sottolineata anche da politici storicamente “merkeliani” come Hendrick Wuest.

Anche in Belgio il primo ministro Alexander De Croo ha deciso di rassegnare le dimissioni dopo il risultato deludente del suo partito dei liberali, a fronte di Vlaams Belang che ha raggiunto la maggioranza con il 14,5% dei voti.

Riguardo la Russia, dalle elezioni di metà marzo non sono emerse sorprese. Dichiarando un’affluenza record, che la Casa Bianca ha definito “voto né libero né giusto”, Vladimir Putin ha ottenuto l’87,17% dei voti. Al secondo posto si trova il candidato del Partito Comunista della Federazione Russa Nikolai Kharitonov con il 4,7% dei voti, mentre al terzo e quarto posto Vladislav Davankov e Leonid Slutsky rispettivamente con il 3,6% e 2,5%.

In Sud Africa, Cyril Ramaphosa è stato riconfermato presidente. L’African National Congress (ANC), tuttavia, non ha più la maggioranza assoluta e ha dovuto “accontentarsi” del 40% delle preferenze. È la prima volta dall’abolizione dell’ Apartheid e dalla conquista del potere da parte dello storico partito che fu di Nelson Mandela: ha governato male, i cittadini – gravati da disoccupazione endemica, forti disuguaglianze e ricorrenti tagli di energia – lo hanno penalizzato e ora deve vincolarsi al “partito dei bianchi”. È positiva l’inedita alleanza della sinistra dell’ANC – che ha sempre promosso programmi di welfare e emancipazione economica – con il liberale Democratic Alliance (DA) – appoggiato dalla classe imprenditoriale, il partito nazionalista zulu Inkatha Freedom Party (IFP) e altri gruppi minori: per il bene del Paese non scivolerà ulteriormente nel populismo e graviterà “attorno al centro”. Tuttavia, sarà una bella sfida per Ramaphosa presiedere un governo che unisce visioni politiche radicalmente diverse. La retorica identitaria “nera” poggiata su un pesante apparato ideologico, non basta più agli elettori sudafricani che pretendono soluzioni concrete ai problemi reali del Paese.

Discorso simile in India. Il primo ministro Narendra Modi ha vinto un terzo mandato consecutivo, diventando l’unico leader indiano dopo il primo, Jawaharlal Nehru, a compiere una tale impresa. Ma il 10 giugno un sentimento generale diverso ha accolto il giuramento di Modi, che entra nel suo undicesimo anno in carica molto più debole di prima e con la sua autorità intaccata. Il suo Bharatiya Janata Party (BJP) non è riuscito ad assicurarsi la maggioranza nelle elezioni tenutesi da aprile a giugno, conquistando solo 240 seggi nel Lok Sabha (la Camera bassa del Parlamento), composto da 543 membri. I risultati erano stati annunciati il 4 giugno. Il partito conservatore e nazionalista del premier indiano – il suo slogan elettorale è “Hindu first”, prima gli indù – non è riuscito a replicare i successi a valanga del 2014 e del 2019. A differenza dei due mandati precedenti, Modi, uomo dal carattere forte e poco incline alla mediazione, avrà bisogno di alleati – principalmente due partiti regionali, il Janata Dal (United) del Bihar e il Telugu Desam Party dell’Andhra Pradesh – per rimanere al potere. Governo di coalizione, dunque: una novità assoluta al termine delle più grandi elezioni democratiche del mondo, che Modi dovrà imparare a gestire. Anche perché l’opposizione dell’ultimo discendente maschio della dinastia Gandhi, Rahul, leader del fronte INDIA (acronimo accattivante di Indian National Developpement Inclusive Alliance) alla guida del partito India National Congress, ha guadagnato 17 milioni di voti in più e 234 seggi. Ora la distanza è minima. Peggio per Modi, che perso la maggioranza dei seggi in Uttar Pradesh, il più grande stato dell’India, un tempo considerato una fortezza inespugnabile per il suo Hindutva – il nazionalismo indù – e la sua politica identitaria. Gli elettori sembrano scoraggiati da quella che è stata una delle campagne più feroci e al vetriolo del BJP, con atteggiamenti xenofobi verso la minoranza musulmana dell’ India – oltre 200 milioni di persone. Il governo, cui vanno riconosciuti i successi nella modernizzazione sia dell’ apparato pubblico che del settore privato, ha regolarmente preso di mira gli oppositori politici e ha presieduto al degrado delle istituzioni democratiche – tra cui la Magistratura, la Commissione elettorale e i media – in un modo che prometteva di rendere le elezioni di quest’ anno tra le più unilaterali che il Paese avesse mai visto. Ma ciò non è avvenuto. La ripresa dell’ opposizione ha salvato la democrazia, rendendo ancora una volta competitivo il panorama politico indiano, incoraggiando le istituzioni indipendenti e la società civile, ritrovando la forza parlamentare e l’autorità morale per imporre controlli e contrappeso all’esecutivo. In un momento in cui il declino democratico dell’ India è sembrata la nuova parola d’ordine, queste elezioni hanno la portata per riparare il danno alla reputazione globale dell’ India. Per quanto riguarda la politica estera, nonostante Modi abbia caricato la narrazione strategica del Paese di un’inedita retorica etno-nazionalista, l’India è emersa come fulcro del nuovo ordine internazionale contemporaneo, non tradendo una certa continuità col passato. La crescente disillusione nei confronti della Cina sta focalizzando l’attenzione dell’Occidente sulla storia di Nuova Delhi, emersa come la grande economia in più rapida crescita nel mondo. Nondimeno, l’invasione russa dell’Ucraina ha evidenziato il delicato bilanciamento delle relazioni internazionali. Le capitali occidentali sono rimaste spiazzate dal rifiuto indiano di condannare Mosca, con il presidente Joe Biden che ha descritto la posizione di Delhi “traballante”. Quanto detto non deve sorprendere. Sin dall’indipendenza avvenuta nel 1947, le relazioni esterne sono state caratterizzate da un certo pragmatismo, spesso impropriamente classificato come “non allineamento”, imperniato sul concetto di vishwaguru, traducibile dal sanscrito come “guida mondiale”. Quantunque, nella realtà dei fatti, nel pieno del clima della guerra fredda, New Delhi ha operato un avvicinamento nei confronti dell’ Unione Sovietica, come testimoniato dal Trattato di “pace, cooperazione e amicizia” del 1971. Forgiato a sua volta nel pieno della contrapposizione col Pakistan, già nemico numero uno dell’ India, che nel 1954 aveva siglato con gli Stati Uniti un trattato di alleanza. Come se non bastasse, Washington si stava adoperando per allacciare i rapporti con la Cina maoista, altro rivale di Delhi. In ottica indiana, l’amicizia con Mosca si basa su una significativa dipendenza dalle armi russe, compresi carri armati, portaerei, sottomarini, missili supersonici e il sistema missilistico S-400. Nonostante un aumento negli acquisti nel settore militare a favore di Stati Uniti e Francia, l’India continua a dipendere dalla Russia, oltre che in ambito energetico, anche per i pezzi di ricambio, essenziali in un contesto di crescenti tensioni con Pechino, con cui ci sono stati violenti scontri al confine negli ultimi anni. Va da sé che l’India non abbia alcun interesse a farsi trascinare negli archi di crisi che si stanno moltiplicando a livello internazionale. Parimenti, negli ultimi anni, le autorità indiane hanno coltivato preziosi legami con Israele, soprattutto in materia di cooperazione tecnologica, antiterrorismo e infrastrutture come testimoniato dalla concessione del porto di Haifa. Allo stesso tempo, tuttavia, Nuova Delhi ha concluso con l’Iran un accordo decennale per le operazioni nel porto di Chabahar. Infine, l’impronta sempre maggiore nell’Asia orientale e meridionale e la sua inclinazione a modellare i contorni strategici del più ampio Indo-Pacifico sottolineano una nuova realtà: l’India non si farà problemi a consolidare le proprie istanze regionali e globali. Quel che rimane da comprendere è se, nel lungo periodo, sarà in grado di dimostrarsi all’altezza delle proprie ambizioni.

La campagna elettorale e lo spoglio dei voti presidenziali e legislativi si sono conclusi anche a Taiwan. L’attenzione dei media internazionali al tema che riguarda Taipei – col nome ufficiale di Repubblica di Cina – è sembrata rivolgersi non tanto ai risvolti del processo democratico in sé quanto ai suoi rapporti con Pechino, che dalla fine della Guerra civile cinese rivendica Taiwan come sua provincia, auspicando la riunificazione dell’isola con la terraferma.
“Abbiamo mostrato al mondo quanto abbiamo a cuore la democrazia”. Sono queste le prime parole con cui Lai Ching-te si è rivolto ai suoi sostenitori dopo che le urne lo hanno incoronato presidente di Taiwan. Lai ha ringraziato il popolo di Taiwan per aver “resistito alle interferenze straniere” – implicito ma evidente il riferimento a Pechino – ed “aver scritto un nuovo capitolo nella nostra democrazia”. Un capitolo che, tuttavia, non sembra prestarsi ad una facile lettura.
Il neo eletto nelle file del DPP, che sostiene l’identità separata dalla Repubblica popolare e respinge le rivendicazioni di sovranità di Pechino, ha ottenuto la vittoria nella sfida a 3 alle elezioni presidenziali, con oltre il 40% dei voti validi. Alle sue spalle, fermo al 34%, Hou Yu-ih, in corsa per i nazionalisti del Kuomintang (KMT), favorevole a stretti legami con la Repubblica popolare nell’ambito del “consenso del 1992” della “One China policy”. Mentre il terzo candidato, Ko Wen-je, del Partito popolare (TPP) – il vero ago della bilancia tra i due blocchi – che si è concentrato più sulle questioni interne come l’energia e l’edilizia abitativa, non escludendo di voler riallacciare i rapporti con la Cina, è scivolato al 27%.
In palio un totale di 13, 6 milioni di voti, con un’affluenza alle urne di oltre il 70% dei 19,5 milioni degli elettori aventi diritto su una popolazione di 23 milioni, leggermente inferiore al record di circa il 75% del 2020. Le elezioni, in una delle democrazie più vibranti d’Asia, secondo il rapporto annuale di Freedom house che misura il grado di libertà civili e diritti in 210 Paesi, si sono svolte in un singolo giorno, senza l’opzione del voto per corrispondenza. Tuttavia, il DPP non è riuscito a mantenere la maggioranza assoluta dei 113 seggi al Parlamento monocamerale, lo Yuan legislativo, aggiungendo una nota di incertezza alla questione più concreta di politica nazionale: la futura presidenza di Lai.
La posta in gioco era particolarmente alta, con i risultati che dovrebbero plasmare le relazioni tra le due sponde dello Stretto, inaugurando uno storico terzo mandato per il partito di governo indipendentista al potere dal 2016, nel mezzo della competizione strategica tra Stati Uniti e Cina che sta ridisegnando gli equilibri mondiali. L’interesse sulle eventuali conseguenze del voto del 13 gennaio, in particolare degli osservatori internazionali che temono l’apertura di un terzo fronte dopo Ucraina e Medio Oriente, parte però da un fraintendimento di fondo.
Se è vero, infatti, che il rapporto con Pechino ha rappresentato un tema centrale nel dibattito politico, è altrettanto vero che i tre sfidanti all’ultima competizione elettorale hanno trovato un terreno comune nell’individuare vari gradi di sostegno al mantenimento dello Status quo. Sul tema della traiettoria delle relazioni con la Cina, questo significa che nessuno a Taipei si sognerebbe di stravolgere il sistema democratico e completamente autonomo dell’isola, perseguendo una dichiarazione di indipendenza de iure come Repubblica di Taiwan. Secondo tutti i sondaggi, “si tratta piuttosto di un voto su chi i taiwanesi reputano più convincente nel mantenere la sovranità de facto di Taiwan”, ha dichiarato Vincent Chao, a capo degli affari internazionali del DPP, come riportato dal Foglio.
Durante il cosiddetto Super Sunday, il candidato dei progressisti, che è riuscito ad ottenere la vittoria pur venendo bollato come “indipendentista” – una posizione che è stata più volte motivo di discussione, sia a Washington sia a Pechino – ha definito il voto una scelta “tra democrazia e autocrazia”, aggiungendo che il suo governo “userà il dialogo” con la Cina. Una posizione che stride con la logica di un «referendum sulla guerra» promossa dalla propaganda del presidente cinese Xi Jinping, il quale, subito dopo il voto ha ribadito che “la riunificazione con la madrepatria è una certezza storica”, senza mai escludere anche l’uso della forza per raggiungerla. Anche gli Stati Uniti, che rappresentano il principale sponsor internazionale, nonché fornitore di armi, di Taipei nonostante la mancanza di legami diplomatici formali, hanno seguito da vicino le elezioni. “Non sosteniamo l’indipendenza di Taiwan” ha commentato il presidente USA, Joe Biden, enfatizzando prima dell’apertura dei seggi che “sarebbe inaccettabile” ogni forma di interferenza nel voto, da parte di “qualunque” potenza. “Taiwan è una democrazia forte”. Lo ha affermato, invece, il sottosegretario americano, Antony J. Blinken, che ha chiamato Lai per congratularsi con il presidente neoeletto e con il popolo taiwanese. In pratica, l’Amministrazione Biden manda a dire che Taiwan è già un Paese sovrano, e non c’è bisogno di dichiarare un’altra indipendenza.
Sembra chiaro, dunque, che la nuova presidenza avrà poco controllo sulle linee di faglia geopolitica dell’isola, espresse nel rafforzamento militare cinese e nelle crescenti rivalità sino-americane. Sabato scorso Taipei ha fatto sapere al gigante autocratico della Repubblica popolare che le democrazie vogliono restare tali. Il modo in cui Pechino reagirà alle scelte fatte dagli elettori di Taiwan rappresenta il vero «referendum sulla guerra». Intanto, il progetto imperiale di Xi Jinping di porre la Cina al centro del Mondo dovrà aspettare ancora.

Il 14 febbraio 2024, in Indonesia si sono svolte simultaneamente le elezioni presidenziali, regionali ed amministrative a vari livelli, le quinte dal 1998, con la fine della dittatura nel 1998. Il voto ha mobilitato oltre 200 milioni di aventi diritto sui 276 milioni di abitanti di quella che è la quarta nazione più popolosa al mondo e sede della più grande popolazione musulmana a livello globale
Esse hanno visto la vittoria di Prabowo Subianto con il 58,59% delle preferenze, che è riuscito addirittura a prevalere sui suoi sfidanti sin dal primo turno, evitando così di dover andare ad un eventuale ballottaggio previsto per il 26 giugno. Classe 1951, Prabowo ha fatto carriera in un corpo d’élite, le forze speciali Kopassus dell’esercito indonesiano, tra il 1976 e il 1998, ai tempi della trentennale dittatura del suocero Suharto (soprannominato lo “sterminatore di comunisti”), salito al potere con un sanguinoso colpo di Stato appoggiato dalla CIA, nel 1967. Sull’ex generale pesano accuse di gravi violazioni dei diritti umani (all’epoca del suo comando) nella repressione degli indipendentisti a Papua e, soprattutto, a Timor Est, la riottosa ex colonia lusitana che Suharto ha invaso dopo la Rivoluzione dei garofani portoghese che le aveva concesso la libertà. La prospettiva di un’amministrazione Prabowo, in ticket con Gibran Rakabuming Raka – il primogenito di Jokowi – che il padre ha nominato come vice di quel che un tempo era il suo acerrimo nemico, godendo ora del pieno appoggio del Presidente, ha sollevato i timori tra gli analisti politici di una svolta dinastico-autoritaria per la giovane democrazia indonesiana. Alla luce di una tendenza politica sempre più diffusa nel Sud-est asiatico, in Thailandia come nelle Filippine.

Le elezioni in Iran del primo marzo per l’Assemblea Consultiva Islamica e l’Assemblea degli Esperti dell’Orientamento hanno mostrato un netto vantaggio dei conservatori sui riformisti. Questo voto è stato il primo dopo le proteste seguite al femminicidio di Jina “Mahsa” Amini nel 2022. Gli elettori, compresi i giovani, hanno partecipato in numero ridotto, con un’affluenza intorno al 41%, in calo rispetto al 2016.
L’Assemblea Consultiva Islamica, con 290 seggi, include 5 riservati a minoranze religiose. Il sistema elettorale prevede collegi uninominali e plurinominali con un meccanismo a doppio turno per garantire una soglia del 25%. L’Assemblea degli Esperti, composta da 88 mujtahid, elegge la Guida Suprema e i candidati devono essere approvati dal Consiglio dei Guardiani, che ha severamente limitato le candidature quest’anno.
La bassa affluenza, insieme alle manovre del governo per aumentare la legittimità, riflette una generale sfiducia verso il regime. I giovani, in particolare, vedono queste elezioni come una facciata di un governo che ha fallito nel migliorare le condizioni economiche e garantire le libertà personali. Il Fronte Riformista e l’ex Presidente Khatami hanno boicottato il voto.
Queste elezioni segnalano un’insoddisfazione crescente e una possibile incertezza per il futuro, specialmente riguardo alla successione della Guida Suprema e alle prossime elezioni presidenziali.

Alessio Zattolo – PhD student

Stefano Lovi – PhD student

Coordinamento a cura di Ciro Sbailò

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